Ad Extrema: Cenci, Astronavi e la Val di Bisenzio

Chiara Grondana

Stories by the “Creative Curious Travellers 2016” about the city of Prato. Thanks to: Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci | Camera di Commercio di Prato | USE-IT Prato | LeCù | Fonderia Cultart | Biscottificio Antonio Mattei | Cibino Take Away | Gelateria Fior di Sole | Apothéke Cocktail Bar | Dolci Amari | Caffè Vergnano | Camaloon | The GIRA.


ESTREMO: IL TERRITORIO

In Val di Bisenzio c’è un’astronave.

L’ha usata Luca per andare su Marte e salvare la sua ragazza. Peccato che la sua ragazza-androide, una volta tornata in vita, gli abbia sparato in faccia.

Sono Luca e Patrizio del collettivo John Snellinberg a mostrarmela mentre dorme in un garage sotto una coperta, in attesa del prossimo volo interplanetario.

Luca e Patrizio sono i miei ciceroni in questo lungo pomeriggio quasi invernale e il mezzo con cui mi portano in giro per la valle non è un ape-astronave, ma una macchina rossa vintage, la cui mia limitata conoscenza in materia non sa identificare.

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Tutto qui grida alla provincia, sebbene la città sia solo pochi chilometri alle nostre spalle. La valle è già un mondo a sé, con le sue storie, i suoi abitanti e le sue follie. Sono tre i comuni che si srotolano fino ai colli più alti, Vaiano, Vernio e Cantagallo, a loro volta frammentati in piccole frazioni ognuna diversa dall’altra.

Quelli di qui sono dei tirchi! Questi sono ricchissimi, invece. Con quegl’altri proprio non puoi ragionare, mi raccontano le mie guide man mano che attraversiamo nuove borgate.

Val di Bisenzio terra di confine, imbottigliata fra Prato e la provincia di Bologna, perforata dall’antica linea Firenze-Bologna che è stata anche teatro della strage del Rapido 904.

Un mio compagno alla Scuola Holden era originario dell’alta Toscana e spesso nei suoi racconti inseriva boschi, cacciatori, valli e bar pieni di personaggi assurdi. Leggeva i suoi racconti in classe con quel suo accento toscano-ma-non-fiorentino e tra la comicità delle situazioni percepivo un senso di abbandono, di isolamento e di legame stretto con l’Appennino.

Ed eccomi mesi dopo in valle, e mi sembra di essere finita dritta dritta nelle pagine di quei racconti. L’accento di Luca e Patrizio è lo stesso, si parla di caccia e cacciatori come se fosse la normale attività di qualsiasi uomo adulto che si rispetti della zona; verso la fine del nostro giro incontriamo perfino un bracco sperso che gira per i boschi, il padrone chissà dove. Ma è la nostra prima tappa quella che mi fa pensare Sì, sono proprio in uno di quei racconti.

Passiamo davanti al bar, vediamo se c’è il signor Amadei, te lo facciamo intervistare, mi dicono.

Il tipico ciancione da bar, il signor Amadei, a sentir loro.

Amadei c’è, in effetti, seduto fuori dal bar. Legge il giornale ed è preoccupato per la situazione al Monte dei Paschi, perché a sentir lui ci ha messo tanti tanti soldi dentro. Ma con me non vuole parlare, non se ne può far niente. La barista esce a incoraggiarlo.

Ti sei fatto timido tutto di colpo?

Pare di sì, e il sole autunnale sta poco in cielo e devo batterlo in velocità, fotografare la valle prima che questo scenda.

Getto la spugna e va bene così, quel breve scambio, quella piccola scena in cui mi sono intrufolata da straniera è stata eloquentissima, oltre che divertente. In auto Patrizio e Luca completano il quadro sul signor Amadei, il cui vero nome è in realtà un altro, nessuno sa perché si faccia chiamare con un altro cognome.

Come un dipinto, un elemento decorativo del paese, è colorato, è lì, magari a volte dà fastidio ma nessuno lo mette in discussione.

Mentre l’identikit va avanti, alla mia destra si srotola la valle, così bassa per me, figlia delle Alpi, abituata a essere intrappolata da cime altissime. I monti qui sono dolci, ondulati, ancora verdi nonostante l’inverno alle porte.

Sebbene non più sotto il comune di Prato, la valle e i suoi paesi ne portano i segni. Un’eredità che parla di un passato florido e ora di disastro e rinnovamento. Come una filiale di Prato, il centro della valle è attraversato dal fiume Bisenzio e da un interminabile avvicendarsi di fabbriche tessili, quasi tutte ormai chiuse.

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Gli stanzoni lasciati vuoti dalla crisi sono però stati un’occasione per le realtà artistiche della zona. Come molti altri prima e dopo di loro, anche il collettivo John Snellinberg, che si occupa di produzione video e ha alle spalle lungometraggi e cortometraggi di successo, ha visto la luce in uno degli stanzoni. Da New York a Prato, le Factories continuano a produrre, cambiando solo il prodotto.

C’è una fabbrica che però non ha avuto ancora la fortuna di rinascere.

Nata come cartiera nel ‘700, e trasformatasi più volte avvicendando la produzione della carta a quella del rame, la fabbrica di La Briglia ha dato lavoro a tanta gente in valle. A testimoniarlo solo le case costruite tutto intorno lo stabile, come un piccolo villaggio privato in cui sorge anche una chiesa. A fianco della chiesetta, un monumento per celebrare il lavoro: un’enorme pinza metallica che a prima vista sembra la mano di un robottone caduta dal cielo.

Nel suo ultimo capitolo, in fabbrica venivano lavorati i cenci. Quando è arrivata la parola FINE, questi sono stati abbandonati lì, fissi come in una foto, ancora ammucchiati come l’ultimo giorno di lavoro.

Cenci.

Sento ripetere tante volte questa parola durante la mia permanenza e pare assurdo che un’economia si basi su stracci, rifiuti. Quando entriamo nella fabbrica i cenci sono tutti lì, umidi e grigi come dei languidi gatti assonnati.

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Tutto intorno calcinacci, polvere e muschio. L’aria è umida e sembra di essere in una cattedrale abbandonata. Lo siamo, in un certo senso. Dal tetto crollato dell’immenso salone principale si scorge il camino pericolante, edere e piante hanno attecchito dappertutto.

Nessuno viene a mettere in sicurezza lo stabile, ci dicono. Nessuno fa niente, quel camino se crolla ci cade in testa.

Mi sento un’esploratrice, tornata all’infanzia. Mi graffio le ginocchia passando dalla scala a pioli che ci porta al piano superiore e il pavimento in cemento. Ma so che non devo prendere la cosa troppo alla leggera, perché sto camminando dentro il fallimento di un uomo, la rovina di una famiglia e la morte di una tradizione.

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L’ex-proprietario ci saluta mostrandoci una tesi di laurea sulla fabbrica. Ci mostra le foto dell’orologio che non siamo riusciti a vedere, preme affinché io denunci la sua situazione. Non sono quel tipo di reporter, vorrei dirgli, non sono nemmeno una reporter.

Sta venendo buio.

Ci rimettiamo in viaggio e iniziamo a salire. Vedo la vallata dall’alto, da un punto panoramico che sembra un altro mondo ancora. Ci sono cavalli, prati, grandi ville.

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E ricominciamo a salire e la notte scende, ma la valle va vista tutta. Ormai le case sono distanti e le strade che prendiamo sono tutte curve e circondate da boschi. Gli aneddoti continuano, parliamo del loro lavoro, della situazione politica della zona. Rido, e molto, quando uno svincolo indica tre borgate in questo ordine:

La Vergine

Il Monte

Le Valli

Il titolo di un film, di una commedia teatrale, di una fiaba.

C’è qualcosa di assurdo e surreale in questa valle, questi abitanti, questi nomi. Viene quasi voglia di non prenderli mai sul serio. Ma Luca e Patrizio mi fanno cambiare idea.

Vogliamo raccontare la Toscana profonda, mi diconomalinconica, di provincia, non il solito Pieraccioni, sole vino e stereotipi. Il pratese è più sanguigno, incazzato.

Prima di salutarmi, però, ci scrolliamo di dosso analisi sociologiche e il buio e entriamo nel garage di Luca, dove mi vengono mostrate l’astronave e le pistole fatte con un asciugacapelli.

Avevano inventato Westworld prima di Westworld, in un piccolo garage di provincia.


Ringrazio Luca Taiti Patrizio Gioffredi per essere stati delle guide meravigliose e avermi offerto la focaccia. Per chiunque fosse interessato:

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