12 libri per leggere l’Italia e scoprire chi votare il 25 settembre

Elena Mazzoni Wagner
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ITALIA Per quest’estate 2022 ho scelto dalla mia libreria 12 libri, alcuni già letti e sottolineati, altri in corso di lettura, altri appena iniziati (sono una Gemelli). Ardua selezione, molti altri meritavano di stare qui ma i listicle troppo lunghi spaventano i clic (non ho risparmiato comunque le parole). Ho privilegiato autrici e autori contemporanei che io sappia residenti in Italia, quindi potenzialmente più facili da invitare e coinvolgere in eventi/studi/ricerche/progetti (unica ragione per cui, ad esempio, ho escluso Dovremmo essere tutti femministi di Chimamanda Ngozi Adichie o Invisibili di Criado Perez). Inoltre, ogni libro di questa lista risponde in qualche modo a fatti e contesti attuali che raccontano un Paese con disperato bisogno di cambiamento, culturale e strutturale, radicale e quindi di una Politica che abbia, intanto, il coraggio di promuoverlo e poi (si spera) la capacità di attuarlo.

Nota: l’ordine dei libri cerca di seguire il filo di un discorso, puoi comunque iniziare da dove vuoi e poi tornare all’indice! 

  1. Storia del bosco. Il paesaggio forestale italiano
  2. I bugiardi del clima. Potere, politica, psicologia di chi nega la crisi del secolo
  3. Vivi gli ecovillaggi d’Italia. Esperienze e soluzioni dalla vita comunitaria
  4. Comunità
  5. Oltre la grande bellezza. Il lavoro nel patrimonio culturale italiano
  6. Oltre il turismo. Esiste un turismo sostenibile?
  7. Contro i borghi. Il Belpaese che dimentica i paesi
  8. Abitare stanca. La casa: un racconto politico
  9. Questioni di un certo genere. Le identità sessuali, i diritti, le parole da usare: una guida per saperne di più e parlarne meglio
  10. Femminili singolari. Il femminismo è nelle parole
  11. Non è un paese per madri
  12. Perché il femminismo serve anche agli uomini
  13. E contro il razzismo, nessun consiglio di lettura?

1. Storia del bosco. Il paesaggio forestale italiano

di Mauro Agnoletti, 2018 | Laterza

Piantiamola di piantare alberi, vi prego! Ora ci si mette pure Silvio, aiuto. Sembra la gara tra chi dice di piantare di più. Il primo premio, però, resta al Comune di Prato, la mia città, che ormai da anni non fa che piantare cose (almeno nei rendering) e parlare in inglese (quello amerihano però, ad esempio, scrive Urban Center invece di Centre, it’s più cool e chissene di farsi capire dalla cittadinanza). Ormai tutto qui, nella #PratoForestCity, è diventato #green (a parole): grazie al #PratoGreenDeal nascono ogni giorno nuovi parchi e giardini o meglio “nuove infrastrutture verdi connesse da sistemi di ciclabili esistenti che si articolano attraverso network di spazi verdi rigenerati, che attuano le strategie di forestazione urbana, inclusione sociale, mobilità sostenibile e resilienza urbana”. Lo so che stai ridendo, ti vedo! Beh, vuoi sapere l’ultima? Da oggi abbiamo pure il #PratoGreenHospital: “un’architettura paesaggistica green” per ricoveri da sogno. Peccato invece non avere ancora un “bosco biosostenibile e partecipato” (ahahah) come quello del Comune di Montopoli (Pisa) ma non si può volere tutto. In ogni caso, l’urban eco-dictionary Made in Giungla Prato Smart City of the Forests of the World è esemplare di una politica che oggi sa solo bio-friggere con l’acqua in “fabbriche dell’aria” e di una comunicazione politica basata sul fuffa-marketing più patetico: puro #greenwashing, altro che #greendeal.

Per questo “modello” di progettazione urbana (che secondo un recente studio porta con sé il rischio di una green gentrification / gentrificazione verde che fa alzare il costo delle case)* dobbiamo riconoscere il contributo speciale di due Stefani diventati stelle nel senso hollywoodiano: Misters… Mancuso & Boeri! Grazie a loro, oggi, la politica italiana sa che per fare un bosco ci vogliono gli alberi e che per credersi assessori ganzi (come si dice in Toscana) servono hashtags trendy come #riforestazione, #rigenerazione e #resilienza, altrimenti sei out like a balcony e magari pure un balcony senza bosco verticale, vuoi scherzare?!

Si ride per non piangere ma ora facciamo le persone serie e prendiamo in mano il libro di Mauro Agnoletti, impariamo la differenza tra i termini bosco e foresta, conosciamo la storia del nostro paesaggio boschivo, da Nord a Sud la civiltà del castagno, l’albero del pane, e poi faggi, querce, larici, abeti… Scopriamo il nostro paesaggio naturale che è comunque un prodotto culturale, legato sempre alla storia delle attività umane, alle scelte della nostra società, economia, politica. E magari così, oltre a piantare nuovi alberi – (che poi vorrei sapere dove troviamo l’acqua per annaffiarli, data la crisi idrica dovuta alla drammatica siccità con conseguente crisi agricola e quindi alimentare) – decidiamo di lavorare a soluzioni che proteggano i nostri boschi dagli incendi e che curino quelli abbandonati e ammalati. Lasciamo agli influencer il compito di piantare alberi (anche se loro preferiscono farlo a distanza e in posti esotici, il buonismo colonialista è sempre di moda). Chi fa politica invece si occupi di tutelare e valorizzare il patrimonio boschivo italiano favorendo magari persino l’economia: l’industria nazionale importa l’80% del materiale legnoso (legname e derivati) dall’estero, nonostante il territorio italiano sia coperto per oltre il 35% proprio da boschi. La ragione? L’abbandono. E allora? Recuperiamo, curiamo e tuteliamo ciò che già c’è! Questo si deve dire e fare.

*Ho letto dello studio sulla gentrificazione verde nell’ultima mail da Segnali dal futuro, una newsletter collaborativa di segnali culturali, tecnologici, politici ed economici nata nel 2020 per allenare la nostra capacità di immaginare il futuro. Alla nostra classe politica, tra le altre cose, manca la lungimiranza: te che chiedi voti ma anche te che voti, faresti bene ad iscriverti!

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2. I bugiardi del clima. Potere, politica, psicologia di chi nega la crisi del secolo

di Stella Levantesi, 2021 | Laterza

La Commissione Europea sta valutando la documentazione in arrivo dai vari stati sull’attuale siccità, probabilmente la peggiore avvenuta fino ad oggi in Europa. Con questo libro possiamo capire come sia potuta riuscire l’operazione di occultamento più grande del secolo, quella orchestrata dai negazionisti dell’emergenza climatica. Dobbiamo allenare la nostra coscienza critica ed imparare a riconoscere le bugie di cui oggi siamo sempre più circondatə, dagli scaffali dei supermercati ai palchi dei beach party (a proposito, firma anche tu questa petizione!), dalle scelte vigliacche ed egoiste della misera classe politica che, in assenza di coraggio o in cerca di vana gloria, esegue gli ordini del dio mercato copiando i lavaggi green dal marketing più patetico di ormai qualsiasi brand. La più grande bugia che ci raccontiamo oggi è che ognuno di noi possa fare la differenza: FALSO. O il cambiamento avviene a partire dai vertici di chi ha potere politico ed economico oppure il nostro shopping bio-sostenibile e le nostre borracce eco-cool non serviranno a niente! E comunque le scelte migliori (lo ricordo prima di tutto a me stessa) sono sempre quelle di: non acquistare, acquistare meno e meglio, comprare prodotti locali da produttori e venditori locali, scegliere l’artigianato e l’usato (vintage se ti suona meglio), riparare e riciclare. E chi può, si faccia l’orto in casa oppure in comunità.

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3. Vivi gli ecovillaggi d’Italia. Esperienze e soluzioni dalla vita comunitaria

a cura di Lorenzo Olivieri e Jacopo Tabanelli, 2022 | Chakruna Publishing

A proposito di comunità, presto racconterò qui su CCT della mia breve ma intensa esperienza di abitante temporanea nell’Ecovillaggio di Torri Superiore, un piccolo borgo medievale nel comune di Ventimiglia, in Liguria, recuperato nel 1989 da un gruppo di persone con consapevolezza e lungimiranza rivoluzionarie, che hanno trasformato questo paese abbandonato in un centro culturale internazionale, diventando un esempio virtuoso e d’ispirazione per tante altre comunità intenzionali in tutto il mondo.

Intanto, con questo libro, vi invito a scoprire la rete in continua crescita degli ecovillaggi presenti in Italia, ad oggi 87. E soprattutto ad apprendere dalle esperienze più consolidate e sostenibili, anche economicamente, come quella di Torri, le buone pratiche che oggi leggiamo in ogni progettazione ma che facciamo così fatica a mettere davvero in atto. Ecco, io credo che ogni assessorə, sindacə, cittadinə elettə o candidatə a prendersi cura di una comunità, potrebbe imparare tantissimo da vere comunità come quella di Torri. Nel secondo capitolo di questo libro collettivo, Lucilla Borio (co-fondatrice di Torri Superiore e della RIVE) racconta l’evoluzione e la crescita degli ecovillaggi italiani in un testo denso di messaggi politici e sociali, idee e valori che oggi, almeno sulla carta, sono riconosciuti anche dalle nostre istituzioni. Da tempo la rete degli ecovillaggi italiani (RIVE), all’interno di quella europea (GEN), è in dialogo con le istituzioni dell’Unione Europea e persino con le Nazioni Unite (sì, proprio l’ONU) mentre in Italia esiste però un vuoto legislativo (a proposito, firma anche tu questa petizione!). Eppure…

“[…] Fino a 150 anni fa l’Italia era un Paese fondato sul concetto di famiglia allargata. Le corti e i borghi, che esistono ancora in tante regioni italiane, fanno vedere materialmente qual era la struttura: un gruppo di persone che condividevano gli spazi, gestivano il territorio e avevano un’identità sociale comune. Nel giro di 50 anni la popolazione impegnata in agricoltura è scesa dal 75% al 3%, […]. Le comunità agricole si sono gradualmente sfaldate, nutrendo l’esodo verso le città e i poli industriali, disperdendo la cultura del territorio ed il patrimonio di conoscenze conservato nei secoli, impoverendo la biodiversità vegetale, animale e sociale del nostro Paese. […] Attraverso la rete GEN e RIVE abbiamo portato il messaggio di recuperare il patrimonio storico-architettonico già costruito, che spesso è in abbandono e cade in rovina. […] è importante attuare politiche di riciclo ecologico dell’immenso patrimonio esistente, recuperando e riutilizzando queste costruzioni, spesso assai pregevoli. Questo approccio conservativo e allo stesso tempo innovativo sta suscitando interesse anche presso alcuni ambienti accademici (tra cui UniMi e UniTrento), e stiamo condividendo le nostre esperienze pluriennali sul tema della rivitalizzazione dei comuni montani per contrastare l’impoverimento, anche demografico, […] In conclusione, da esperimenti marginali, guardati con perplessità se non diffidenza dalle amministrazioni locali, gli ecovillaggi sono riusciti a guadagnare interesse e affidabilità, grazie alla costante creazione e applicazione di buone pratiche in campo sociale, economico e ambientale. Le strade per salvare gli ecosistemi sono molte e tutte urgenti, e vivere in ecovillaggio è una scelta possibile, fondata sull’attivismo pratico e l’impegno quotidiano e collettivo. […]”

E sulla vita in comunità, trovo questo punto particolarmente interessante: “[…] La cultura da cui proveniamo è di tipo competitivo perché è insita nel modello capitalista, è lo stimolo che muove la società che ci circonda, è basata sulla logica del “io vinco, tu perdi”, come lo è d’altronde il metodo decisionale “democratico” della maggioranza. Questo metodo causa sempre la sconfitta di qualcuno, ovvero della minoranza, che non è mai molto contenta. Imparare a decidere in un altro modo è fondamentale, perché se continuiamo a creare persone scontente che si sentono sconfitte, e non contano granché all’interno dei gruppi, inevitabilmente ci portiamo il conflitto in casa. I metodi decisionali consensuali, molto diffusi negli ecovillaggi, sono invece fondati sulla condivisione delle informazioni, su processi decisionali realmente partecipati ed inclusivi, che integrano tutte le voci per arrivare ad una soluzione che tutti sono in grado di sostenere e mettere in pratica. […]”

Tutte queste idee si basano sull’esperienza, ogni singola parola proviene dalla pratica: nessuno dice sia facile, anzi, ed è ovvio non lo sia, niente di buono e durevole è cosa facile da costruire. Questo libro racconta esperienze reali di vita vissuta in comunità e per questo credo debba essere divulgato il più possibile, soprattutto tra chi chiede di essere elettə per prendersi cura delle nostre comunità.

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4. Comunità

di Marco Aime, 2019 | Il Mulino

Dalla pratica degli ecovillaggi passiamo alla teoria dei comuni che progettano “riqualificazioni urbane partecipate dalla comunità”: una serie di parole diventate prive di significato nel vocabolario retorico delle amministrazioni pubbliche, parole svuotate di senso e ostentate persino quando queste operano insieme ad enti privati che producono gentrificazione e turistificazione espellendo così cittadinə dai loro quartieri e quindi dalle loro case. Forse sarebbe il caso di comprendere bene il significato della parola “comunità” prima di ab-usarla a tutti i costi. Ecco, questo saggio può aiutare. E per proseguire un’analisi del linguaggio politichese contemporaneo, tanto trendy quanto tossico, segnalo un podcast, I dialoghi della creanza: “Non sarà che dietro tanta smania di innovazione, rigenerazione e sostenibilità si nascondano le solite dinamiche di potere, profitto e rendita?” A partire da questa domanda, il podcast a cura di Riverrun Hub, prova a fare il punto sull’innovazione sociale e culturale in Italia in 12 episodi-parole dialogando con professionistə del settore. Professionistə che più di altrə, nel “Belpaese del petrolio culturale (per pochi)”, faticano sempre di più a campare.

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5. Oltre la grande bellezza. Il lavoro nel patrimonio culturale italiano

a cura di Mi Riconosci, 2021 | DeriveApprodi

Per la politica italiana, dalle giunte comunali ai ministeri, la cultura non è una cosa seria, chiunque può (non) occuparsene. Basta farsi qualche foto agli eventi, per la gloria della propria immagine e propaganda, e hai svolto il tuo (non) lavoro. A lavorare davvero per i NOSTRI beni culturali ci sono invece professionistə con anni di studio, diplomi, lauree, master, tirocini, stage e poi? E poi collaborazioni di volontariato oppure contratti di tre mesi a 3,50 euro l’ora. Questa è la normalità in Italia, il Belpaese dei siti UNESCO, della retorica del Bello e del “petrolio” ma attenzione che questo è solo per pochi privati a cui lo Stato delega la gestione dei NOSTRI beni culturali, rimettendoci in incassi e accettando l’illegalità nelle pratiche diffusissime e ordinarie di sfruttamento del lavoro. Normalità che Mi Riconosci racconta e denuncia attraverso i social media dal 2015. Questa associazione di professionistə dei beni culturali ha poi raccolto dati, svolto indagini ed elaborato anche una proposta per un Sistema Culturale Nazionale in un libro che TUTTƏ noi cittadinə dovremmo leggere e consigliare.

Dal 2014 (!!!) abbiamo un Dario Franceschini (la durata del suo incarico lo rende il Ministro della Cultura più longevo della storia della Repubblica italiana) che insiste a (non) gestire il patrimonio culturale italiano sprecando in modo clamorosamente criminale i nostri soldi (che nel settore culturale non ci sono mai tranne che per amici, fondazioni e simili). Tra gli infiniti esempi che potrei fare, uno a caso: il MiC oggi continua a spendere nostri soldi su campagne social (dove alcuni influencer fanno stories di #unboxing aprendo scatoline con matite colorate e la scritta .ITsArt mentre sono sulla spiaggia… no comment) – per promuovere la “Netflix della cultura italiana” lanciata con tanto orgoglio dal Ministro nel 2020, durante la pandemia, e che nessuno ancora conosce in Italia e che a giugno 2022 perdeva solo 7,5 milioni di euro. Caro Dario, sbagliare è umano ma perseverare è da fhu%kalhf743ow/&)ubsc52ròoefw9|!!!!!!. 

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6. Oltre il turismo. Esiste un turismo sostenibile?

di Sarah Gainsforth, 2020 | Eris

“Centri storici svuotati di abitanti e sovraffollati da turisti, case vuote, strade identiche. Territori distrutti e inquinati dallo sfruttamento intensivo delle risorse. Questi sono alcuni degli effetti del turismo di massa sull’ambiente e sui centri urbani. Nonostante questo si continua a sostenere che “il turismo è una risorsa”, “il turismo porta lavoro”, “il turismo genera ricchezza”. Per pensare un turismo sostenibile è necessario ripensare le dinamiche basilari a partire da una nuova prospettiva, da un’ecologia popolare.” 62 pagine (tutte sottolineate nel mio caso) sull’omologazione delle città, sui processi di turistificazione e gentrificazione mascherati da politiche di “rigenerazione urbana” e “valorizzazione”, sull’ecologismo solo di facciata, sulla cultura che in Italia è solo strumentale al turismo (quando dovrebbe essere il contrario!), sui “borghi” intesi solo come spazi di consumo, sul profitto nel settore turistico che non resta al territorio, sull’arresto improvviso dei flussi turistici a causa della pandemia e su cosa tuttavia non abbiamo imparato. E infine su cosa fare per cambiare le cose.

Ho tutti i libri (ad oggi tre) di Sarah Gainsforth, ricercatrice indipendente. Adoro le analisi e riflessioni che scrive su testate giornalistiche come InternazionaleL’Essenziale. Da leggere assolutamente la sua ultima inchiesta: I costi sociali del Jova Beach Party. “Una delle operazioni di privatizzazione dello spazio pubblico più sfacciate e più gravi che abbiamo visto negli ultimi anni. Stiamo finanziando con fondi pubblici la distruzione di aree demaniali anche protette, destinate a rinaturalizzazione, per consentire lo svolgimento di eventi privati a scopo di lucro a fronte del pagamento di canoni irrisori per concessioni demaniali temporanee.” – da un suo commento su Facebook. Della stessa autrice, di seguito anche il suo ultimo libro, un racconto politico su un altro tema fondamentale.

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7. Contro i borghi. Il Belpaese che dimentica i paesi 

a cura di Filippo Barbea, Domenico Cersosimo e Antonio De Rossi, 2022 | Donzelli

“Un paese di poeti, santi e navigatori. Ma anche di «borghi». Da qualche anno, la riscoperta del policentrismo territoriale italiano viene veicolata nello spazio pubblico e mediatico dal concetto di «borgo» e dai suoi correlati semantici. Le migliaia di comuni italiani, la varietà e complessità territoriale di un paese costituito da poche grandi città, pochissime «metropoli», molte città medie, una miriade di piccoli comuni, frazioni, reti di città, campagne, coste, colline e montagne, vengono così ridotte all’immagine del «borgo». Facile rap-presentazione ammalata di «metrofilia», che trae piacere dall’eccitazione per un oggetto percepito come atipico, privo di una propria volizione, da soggiogare e umiliare in un riconoscimento del tutto asimmetrico, dove il borghese illuminato e riflessivo «adotta» il borgo bello ma bisognoso. Un rapporto, questo, che misconosce l’autonomia dei territori, la loro libertà di «dire no», il loro carattere morale e paritario nella produzione di strategia di sviluppo condivisa. Fino a negarne l’identità specifica. Le conseguenze sono molteplici e nefaste. Come già per la cultura, la narrazione del «borgo» fa sì che anche la valorizzazione del territorio sia tale solo se inglobata nella goffa egemonia del «turismo petrolio d’Italia», oggi condita con una spruzzata di ecologismo che assomiglia più al giardinaggio che alla presa in carico della questione ecologica. Le stesse politiche pubbliche (si pensi al «Bando borghi» del Pnrr o alle iniziative delle case a 1 euro) soffrono di questa distorsione sistematica. Visto dai centri delle grandi città e con gli occhi di una classe dirigente (politica, economica, intellettuale) sempre più urbana per categorie e riferimenti culturali, se non per nascita e capitale sociale, il borgo diventa così il comodo e informe contenitore dove riporre, deformandola, l’alterità dei territori. Come se i territori del margine non avessero un loro carattere autonomo e differenziato, non fossero da riabitare anzitutto fin dalla vita quotidiana delle persone.”

Vi suggerisce questo libro chi con CCT studio, dal 2019 al 2021, si è presa cura di un luogo chiamato Castagno di Piteccio – il Borgo Museo di Pistoia. Ho raccontato del lavoro per il Borgo Museo, un progetto avviato e sviluppato sulla base di uno studio costante del territorio, insieme alla sua comunità e ad un gruppo di professionistə, in un libro intitolato Da borghi abbandonati a borghi ritrovati – secondo tempo, pubblicato dall’Associazione ‘9cento a maggio 2022.

Anche per questa mia piccola esperienza – nel confrontarmi con diversi punti di vista e dinamiche sociali tra comunità residente (abitante) e temporanea (altro), associazioni e attività locali, istituzioni, fondazioni, aziende che con il territorio fanno marketing, politiche e personalismi, comune, regione, Trenitalia, agenzie di comunicazione e promozione turistica per enti pubblici, etc. – sono consapevole di quanto la narrazione turistica e la pianificazione politica sui “borghi (alberghi) d’Italia”, spesso etichettati come i “più belli” o bandierizzati con un colore speciale perché alcuni enti privati lo decidono (incassando quote dai comuni che si candidano), siano da tempo e sempre più pericolose. 

Questo libro, parte di una serie curata dall’associazione Riabitare l’Italia per la casa editrice Donzelli, è un manifesto politico davvero necessario e prezioso per il nostro territorio, divulghiamolo!

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8. Abitare stanca. La casa: un racconto politico

di Sarah Gainsforth, 2022 | Effequ

Abitare, per altre ragioni dai borghi, è diventato difficile anche nelle città, sempre meno dei cittadinə e sempre più di Airbnb. Città con sempre più divieti per il “decoro urbano” e sempre meno diritti per vivere gli spazi pubblici. “Città merce” come la chiama Sarah Gainsforth nel suo primo libro. Turistificazione, gentrificazione, affitti sempre più alti e mutui impossibili, città solo per turisti, quartieri senza abitanti, città senza cittadini. Venezia, Firenze, Roma sono esempi modello di una politica che vende le nostre città ad un turismo di massa distruttivo, che consente la privatizzazione dei nostri spazi pubblici per sfilate di alta moda e feste private, che omologa tutto uccidendo la biodiversità del tessuto sociale, culturale ed economico, che espelle i cittadini dai centri urbani, che uccide la vita nelle città come si è visto benissimo (senza imparare niente) durante la pandemia. In questo suo ultimo libro, a partire dalla propria esperienza, l’autrice e ricercatrice mette a nudo uno dei problemi più seri per la società contemporanea: quello di ABITARE. Abitare è un problema, enorme. Chi non lo sa? Eppure la politica continua ad ignorarlo.

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9. Questioni di un certo genere. Le identità sessuali, i diritti, le parole da usare: una guida per saperne di più e parlarne meglio

Cose spiegate bene con testi di Arianna Cavallo, Fumettibrutti, Vera Gheno, Gianmarco Negri, Diego Passoni, Massimo Prearo, a cura de Il Post, 2021 | Iperborea

“Fiocco azzurro o fiocco rosa: tutte le persone vengono divise tra due gruppi alla nascita, o ancora prima, in base alla forma dei propri genitali vista in un’ecografia. Le cose però non sono mai così semplici e concluse, e per capirle meglio abbiamo cominciato a distinguere sessi e attrazioni sessuali prima, e identità di genere poi. Insieme a queste distinzioni sono arrivate nuove parole – come ‘bisessuale’, ‘LGBTQIA+’, ‘transgender’ e ‘cisgender’ – e nuovi dibattiti. Uno riguarda la lingua (non solo lo schwa), altri cose più concrete: i simboli sulle porte dei bagni, le categorie nello sport agonistico, gli abiti che indossiamo. E poi ci sono le questioni dei diritti, e la capacità di tutti di conoscere e capire il prossimo, e gli argomenti di cui si discute.”

Questo libro è il secondo volume di Cose spiegate bene – una serie di pubblicazioni cartacee a cura del giornale online Il Post perché “le Cose cambiano se le si spiegano bene, e le vite migliorano se si capiscono le Cose”. Su queste pagine è possibile comprendere in modo molto chiaro alcune questioni fondamentali per vivere in una società che, per fortuna, cambia (a prescindere dal proprio ombelico) e per fare scelte politiche che abbiano in mente almeno una cosa: la normalità non esiste, esiste però una società creata a misura d’uomo maschio, bianco, eterosessuale, cis, non disabile e di mezza età, che – in maniera diversa – ignora, discrimina, marginalizza, esclude la maggior parte delle persone. Impariamo a riconoscere i propri privilegi e lottiamo per trasformare quei privilegi in diritti per tuttə. Impariamo a decodificare e decostruire. È un errore e spesso un orrore dare per scontato e “normale” che la realtà sia “così” come la cultura suprematista patriarcale impone. Un esempio: Dio è maschio? No, per tutte le religioni cristiane. Anche se la Chiesa Cattolica per parlarne usa il maschile. A pagina 106 del libro puoi approfondire.

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10. Femminili singolari. Il femminismo è nelle parole

di Vera Gheno, 2019 | edizione ampliata 2021 | Effequ

E qui mi mancano quasi le parole. Perché il sentimento che ho per l’autrice, scrittrice, traduttrice, sociolinguista e docente universitaria Vera Gheno è di una gratitudine immensa per il suo lavoro di studio e divulgazione, per il suo attivismo culturale. Inutile parlarne: esiste ancora qualcunə che non conosce la sua opera?! Allora faccio una cosa, riporto due passaggi da questo suo libro (ne ha pubblicati almeno altri dieci, tutti da leggere):

“[…] ciò che non viene nominato tende a essere meno visibile agli occhi delle persone. In questo senso, chiamare le donne che fanno un certo lavoro con un sostantivo femminile non è un semplice capriccio, ma il riconoscimento della loro esistenza: dalla camionista alla minatrice, dalla commessa alla direttrice di filiale, dalla revisora dei conti alla giudice, dalla giardiniera alla sindaca. E pazienza se ad alcuni le parole ‘suonano male’: ci si può abituare. Pazienza anche se molti pensano che siano solo sciocche velleità: le questioni linguistiche non sono mai velleitarie, perché attraverso la lingua esprimiamo il nostro pensiero, la nostra essenza stessa di esseri umani, ciò che siamo e ciò che vogliamo essere. La lingua non è un accessorio dell’umanità, ma il suo centro. Le parole vanno sapute usare nella maniera più precisa possibile […]. In questo saggio vorrei mostrare quanto, in realtà, la questione dei femminili – per alcuni difficile da digerire – sia semplice […]

[…] Riassumendo: non esiste alcun motivo linguistico per cui infermiera e maestra sarebbero corretti e ingegnera e ministra no. Motivi linguistici no, ma come vedremo partendo dalle proposte o dalle proteste dei commentatori sui social, motivi sociali, culturali, politici e perfino di gusto abbondano. […] non si può imporre nulla: né l’uso né l’abolizione dei femminili professionali. Quello che un linguista può dire, anzi, spiegare, è che è senza dubbio corretto usare i femminili professionali […]”

Femminili singolari, tanto semplici quanto rivoluzionari per la nostra Italia… rappresentata da un Senato che lo scorso 27 luglio ha respinto, con voto segreto (e vigliacco), l’emendamento per introdurre nel linguaggio ufficiale del Regolamento del Senato la parità di genere, rifiutando così di declinare le cariche al femminile (ministra, deputata, senatrice, ect.). Eppure, basterebbe solo un po’ di buon senso e senso di giustizia, di consapevolezza e sensibilità umane, di connessione con la società e cultura contemporanee, con la realtà che, per fortuna, cambia nonostante una classe politica patriarcale e ignorante. Basterebbe un po’ di logica grammaticale e soprattutto sapere che le parole non sono neutre.

Nel mio piccolo, lotto contro il maschile singolare e plurale universale da almeno i tempi universitari, sarò per sempre grata e legata a questo libro. Ne condivido un ricordo con alcune foto, di quando ai Dialoghi sulla Donna all’interno del Borgo Museo Festival 2021 ho intervistato Vera Gheno proprio per presentare Femminili singolari. E infine le dico anche qui, ancora una volta, GRAZIE di cuore.

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11. Non è un paese per madri

di Alessandra Minello, 2022 | Laterza

Agli stessi Dialoghi sulla Donna del Borgo Museo Festival 2021, tra le ospiti c’era anche Alessandra Minello: ricercatrice in demografia, studia le differenze di genere in Italia e in Europa, declinate in vari ambiti (istruzione, sessualità, fecondità, omicidi, lavoro). Quando l’ho incontrata aveva già iniziato a lavorare a questo libro. Anche a lei va tutta la mia gratitudine per le sue analisi così chiare basate su ricerche, statistiche, dati che non sono mai solo numeri, per la sensibilità inclusiva con cui li tratta, per la cura con cui parla di tutte noi che desideriamo diventare mamme oppure no – (e la legge 194 del 1978 deve essere modificata in modo da garantire davvero in Italia il diritto all’aborto, gravemente ostacolato invece dall’obiezione di coscienza!) – e di tutte le nostre famiglie, tutte diverse ma con tutto in comune, perché qui, in Italia, dentro un sistema complesso, culturale e strutturale, rimasto bloccato dal mito della maternità, nonostante la sua popolazione, da una generazione all’altra, diminuisca di circa un quarto.

La crisi della natalità è in atto da decenni, le italiane hanno iniziato a rinunciare alla maternità già da un po’, come spiegano le indagini Istat. Sempre meno donne e sempre più tardi decidono di diventare madri: la quota di donne senza figli nel nostro Paese è ora tra le più alte in Europa; inoltre, l’Italia è tra i Paesi europei con la più alta percentuale di primi parti oltre i 40 anni e, biologicamente, questo significa che sempre più famiglie si fermano al primo figlio.

“[…] questo Paese che perde le sue madri avrebbe davvero bisogno di capire che per ritrovarle il lavoro è un nodo cruciale. In demografia questo punto è quasi banale: non solo perché ormai sappiamo che dal lontano 1985 nei Paesi economicamente avanzati il legame tra fecondità e lavoro femminile è in una relazione diretta, con i Paesi a più alta partecipazione al mercato del lavoro coincidenti con quelli più fecondi, e che a creare le condizioni che favoriscano il lavoro delle donne (ma anche più in generale dei giovani) non può che essere un obiettivo da perseguire per metterle in condizione di avere il numero di figli desiderato. Ma anche perché il lavoro non solo deve esserci, ma deve essere il meno possibile caratterizzato dalla precarietà, in modo che ci siano le precondizioni per la serenità che serve alla maternità, e insieme economicamente soddisfacente, così da dare alle famiglie la possibilità di sostenere i servizi di cura dei figli.” […]

Cura che dovrebbe essere un lavoro condiviso dai genitori e non a carico, fisico e mentale, esclusivamente o quasi delle donne, mentre lo Stato dovrebbe occuparsi di fare leggi per congedi parentali paritari, riorganizzare il sistema scolastico che male si concilia con la vita lavorativa e garantire servizi fondamentali in tutta Italia. Recenti dati Istat dicono invece che la copertura delle strutture (pubbliche e private insieme) per la prima infanzia nel nostro Paese è del 26%, per altro non omogenea tra le aree geografiche. In altre parole, solo un quarto dei bambini al di sotto dei tre anni ha a disposizione un posto in un asilo nido. Per il resto, ci sono le mamme a casa che rinunciano a lavoro-carriera-autodeterminzione-indipendenza-felicità oppure i nonni se si ha la fortuna di averli vicini. Ma un altro sistema è possibile, basta guardare cosa accade in altri Paesi:

“[…] I paesi economicamente avanzati a maggior partecipazione femminile al mercato del lavoro sono anche quelli con un welfare protettivo nei confronti dell’infanzia e della famiglia, con solide politiche contrattuali, ma anche con una maggiore parità nei ruoli di cura. In questi Paesi, principalmente quelli del Nord Europa, alle donne non è richiesto di scegliere tra l’una e l’altra dimensione, quella di madre o quella di lavoratrice, ma ci sono le condizioni per svilupparle entrambe. […]”

Ho un ricordo molto lucido di me da bambina, molto piccola: seduta in auto dietro ai miei genitori, quando la domenica mio babbo non lavorava e allora andavamo insieme a pranzo fuori, cantavo con tutta me stessa “Elena non ti sposare…” con un sentimento di rabbia e ribellione che volevo evidentemente comunicare ai miei genitori (anche se tecnicamente loro due non erano ancora sposati ma io non lo sapevo e comunque questo non è il punto). In qualche modo, per varie ragioni, avevo intuito che quel modello tradizionale col suo schema di genere e la divisione dei ruoli, quella idea e struttura sociale di famiglia “normale” ovvero patriarcale era sbagliata, innaturale, insana, ingiusta e che io non l’avrei mai accettata. Trent’anni dopo sono contenta di condividere quell’intuizione maturata in consapevolezza soprattuto con mia mamma, Ombretta, classe 1956, oggi anche grazie a questo libro, fondamentale per tuttə ma per noi donne un po’ di più. Riconoscersi in queste pagine è inevitabile e LIBERATORIO. Si prova rabbia, sorellanza e una voglia matta di cambiare le cose.

È l’ora di salire tutte le classifiche europee che vedono l’Italia in fondo, sempre ultima o tra gli ultimi, soprattutto per la parità di genere. Le mamme italiane sono tra le più infelici, raccontano i dati. Basta! È l’ora di compiere e completare la gender revolution anche qui, nel nostro Paese, è l’ora di scegliere e lottare per la felicità. Anche quella dei padri.

P.S. Ci sono state solo due piccole e indipendenti edizioni, i Dialoghi sulla Donna (2019 e 2021) – nati da un’idea di CCT studio in risposta ai Dialoghi sull’Uomo di Pistoia – ma abbiamo fatto comunque un pezzettino di Storia! 🙂

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12. Perché il femminismo serve anche agli uomini

di Lorenzo Gasparrini, 2021 | Eris

“Il principale inganno che la società crea nei pensieri e nei gesti degli uomini è l’illusione della loro libertà. Gli uomini non si riconoscono come vittime di stereotipi o costrizioni. La cultura dominante dice che c’è un solo modo di essere uomini. L’uomo deve essere sicuro di sé, autorevole, non deve mai manifestare emozioni e debolezza, può fare quello che vuole senza dover chiedere mai. Ma la verità è che esistono tanti modi di essere uomini, e sono tutti migliori di questo.

Il femminismo lo dice sin dai suoi albori: “Dobbiamo liberare metà della razza umana, le donne, così che possano aiutare a liberare l’altra metà.” – Parole di Emmeline Pankhurst (suffragetta inglese, esponente attivissima del movimento per il suffragio femminile, Manchester 1858 – Londra 1928) che l’autore sceglie per introdurre questo saggio che lo scorso Natale ho regalato a mio babbo, Umberto, classe 1936. Un testo breve, chiaro e scritto da un maschio: mio padre aveva già letto Dovremmo essere tutti femministi della scrittrice Adichie, sempre su mio consiglio ovviamente, ma lo sappiamo bene come funzionano le menti nate e cresciute in una società come la nostra, soprattutto se di una certa età, è più facile accettare una spiegazione da parte di un uomo etero, quindi grazie di cuore a Lorenzo Gasparrini, filosofo e attivista anti-sessista, fondatore del blog Questo Uomo No, per il suo prezioso contributo. 

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13. E contro il razzismo, nessun consiglio di lettura?

Su questo tema rimando alla “mini biblioteca digitale per l’antirazzismo” su CCT e a questo articolo: Allora, di noi due, chi è la persona di colore?. E concludo dicendo che finché in Italia non avremo una legge che indica il principio dello ius soli per acquisire il diritto di cittadinanza, saremo un Paese razzista. Siamo un paese razzista. Soprattutto quando il Ministero degli Interni annuncia con un tweet del sottosegretario: “Caro Khaby, volevo tranquillizzarti sul fatto che il decreto di concessione della cittadinanza italiana è stato già emanato i primi di giugno dal Ministero dell’Interno. A breve sarai contattato dalle istituzioni locali”. Perché lui sì e tutti gli altri no? Ah già, lui è il tiktoker più famoso al mondo! Politica misera, ipocrita, sporca, utilitaristica, che difende i diritti solo quando è strumentale e fa comodo alla propria faccia. Politica che è solo propaganda. Ma esistono eccezioni ed alternative. Investiamo la nostra fiducia su queste.

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Il 25 settembre io voto Possibile.

Basta con la logica dei “voti utili per far perdere gli altri”. Servono voti di qualità! Clicca qui per leggere il programma di una possibile Italia. E #VotaFemminista anche tu!*

*Grazie alla scrittrice Giulia Blasi e alla sua proposta condivisa tramite newsletter in data 26 luglio 2022, ho scoperto Possibile e ho deciso di investire la mia fiducia in questo progetto politico. Ho 35 anni e sono stanca di essere arrabbiata dal 1987 con il mio Paese. #VotaFemminista, vota per il cambiamento, necessario e possibile.

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