Asincheraglia | Il Giudice Sul Mulo
Trasse nel suo studio, il giorno dopo, i primi pensieri articolati. Dalla nebbia acquosa dell’ebbrezza in fase di smaltimento, distinse solo un paio di sorrisi. La serata, allegra, si era consumata in un locale disperso. Un concerto di una comitiva di amici lo aveva condotto fin lì, nella periferia a cavallo fra Milano e la monotona zona nord, liscia, verde, miseramente umana. Per arrivare, Ludvig, percosse un lungo tratto pedibus calcantibus. Le distanze, dalle cartine colorate di un giornale trovato nel cassetto, gli erano parse allegre. E invece, nel tragitto, un manipolo di italianissimi bravi aveva spaventato, svogliatamente, una ragazza che, cellulare lampeggiante con Winnie the pooh alla mano, scappava correndo. Si ricordò anche della pioggia. C’erano lampi e alberi ondeggianti. Case operaie con tv al plasma dentro. Vialoni senza bellezza e un buio utile per le macchine di grossa cilindrata. Una puttana di colore era lì lì per adescarlo.
Così, quando dalla super-strada con le auto che, prima di sfrecciargli accanto, gli illuminavano il culo di luce fredda – adrenalina e sollievo per non essere colpito – vide il locale, anche l’insegna fluorescente, grande e grezza, gli parve spargesse un calore familiare. Dentro, il complesso di amici suonava un rock casareccio onesto e coinvolgente. Ed allora, nel ricordo, il sorriso si allargò al volto chiaro, agli occhi e agli zigomi russi, come la Madame Chauchat dipinta da Mann. Era la cameriera del locale. Stimò il suo culo uno dei più belli mai visti. Come il protagonista della Montagna Incantata, sentì il sentimento gonfiare da dettagli insignificanti. Il modo di muoversi fra i tavoli, la capacità di brandire le portate, i sorrisi, che solo dopo si accorse essere molto più maliziosi di quanto credesse. Non sapendo come, se ne innamorò. Senza aver scambiato una parola – al di là di un ‘grazie’ silente –, senza averne sondato l’umorismo, senza aver neppure dissertato di teoretica. Insomma, quella mattina, chiuso nel suo studio e rivolto allo specchio, sciogliendo nel mal di testa le ultime resistenze della memoria ghermita dall’alcool, capì di avere in mente una ragazza di grande spessore. Nonostante quei capelli colorati malissimo, compensati da una capacità fuori dal comune di muoversi sulle note rock‘n’roll.
La sera precedente era tornato in macchina, fermandosi nella saletta dei musicisti. Riti post-concertistici. Si accorse di quanta bellezza permea gli sguardi di un gruppo che ha appena fatto musica. Luis, batterista ansiolitico, sfoggiava il suo ipercriticismo birra alla mano. Il bassista, silenzioso come un basso che conta, rifletteva la serenità inquieta della fidanzata belga. Luca ha un padre suicida, e il punto interrogativo dell’esistenza permea ogni sua caustica e risolutiva affermazione. Jack non afferma. E’ affermato, con tanti soldi e una bella ragazza americana. Pensò a quanta globalizzazione fra le anonime strade di Milano che, da sole, non significano nulla. Milano è la città più umana che esista. Di suo non ha niente. Conta solo in relazione a quanto riesce a produrre l’uomo.
Decise che sarebbe tornato al “Paddok” il prima possibile. L’unica voglia che s’arrampicava nella confusione, quello e i momenti successivi sobri o ebbri che fossero, era quella di rivederla. Il giorno in cui scelse di prendere un amico e trascinarlo al “Paddok” non era stato dei più sereni. Una fastidiosa febbriciattola gli pulsava nei polsi, alimentata da piccoli impegni che continuava a rimandare distrattamente. Alla fine, i doveri si accumularono come una montagnola di spazzatura nella mente e così, Ludvig, non poté far altro che optare per un’uscita irresponsabile. Ripensò alla macchia che era diventata l’immagine della giovane cameriera. Ricordava solo alcuni dettagli – il sorriso, gli zigomi – e il resto si traduceva in malcerte sicurezze emozionali. Sentiva gli occhi bellissimi ma non ne distingueva il colore, e intuiva la rotondità del sedere per quanto non ne avesse misurato la qualità. Pensò che non poteva recarsi lì a mani vuote, e decise di comporre una poesia per lei. Adottò il metodo di sempre, chiudendosi nel suo studio e bevendo una lauta dose di acqua ghiacciata, di quelle che sprizzano direttamente nella vescica suggerendo una vivace voglia di pipì. Ludvig, in condizioni concitate, eccitate, sorprendenti, credeva di dare il meglio di sè. Puntuale, l’amico squillò. La serata offriva una luna bellissima e stranamente cangiante. Da rossa e vicinissima, nel giro di un paio di curve, si trasformò in lattea e distante. Tipici trucchi dei giorni estivi, che sembrano non riuscire a gestire la libertà di cui godono potendo tramontare quando vogliono. Il Paddok, distante dalle luci di una festa allegra e per bene, aveva assunto sembianze più autentiche. Neon blu, tavolini in alluminio protesi verso la strada periferica, clientela rigorosamente maschile. Ludvig e il suo socio sedettero strategicamente su sedie utili per osservare l’interno del locale. Le cameriere sfilanti si rivelavano tutte rigorosamente belle e straniere. Il rosso delle pareti di quel casermone in mezzo al nulla urlava il suo provincialismo. Lei arrivò poco dopo, con un sorriso meccanicamente stampato in viso. I capelli erano colorati con maggiore cura, ma il sorriso, questa volta, palesava, oltre la malizia, il conformismo di ciò che viene fatto perché si deve.
Andrea incalzò: “Ciao! Io e il mio socio abbiamo fatto una scommessa: tu sei ucraina, giusto?” Andrea usava sempre osare. Per questo Ludvig lo aveva invitato. Le conversazioni, con lui, si trasformavano in partite di tennis. A volte vibranti, a volte atrocemente inconcludenti. Aveva un modo originalissimo di maneggiare trasparenza e sincerità. “Sono rumena”, disse lei, senza perdere l’aria estatica, “parlo bene l’italiano perché i miei fratelli vivono qui da anni”. Era bassina, magra, dolce. Ludvig avvertì come un peccato il fatto che ci fosse qualcosa che non andava. Mentre venivano serviti secondo i tipici criteri del locale in cui si beve ma non si va lì per bere, le mani della clientela maschile viaggiavano spedite verso aree anatomicamente specifiche delle cameriere. Lo squallore sembrava posarsi su ogni dettaglio come neve nera del giorno dopo. L’idea della ragazza semplice e affascinabile, Ludvig, la convogliò in un unico punto della sua mente. Si ricordò di una cosa che gli ripeteva, in infanzia, un amico traviato verso lo Yoga da suo padre. “Se hai mal di testa, immagina che tutto il dolore si concentri in un unico punto della tua zucca. Poi immagina del fumo che, da quel punto, si alza fino a formare una nuvoletta. Ecco, ora il mal di testa è fuori di te.” Fece così col pensiero di lei, non prima di aver valutato l’ipotesi di rapirla, strapparla ai suoi sorrisi e agli sguardi del pappone eccitato che osservava dall’alto, di farla innamorare. Il pensiero svanì come una pozzanghera stanca evapora ad agosto. E Ludvig era veramente stanco di osservare un giovanotto che trafficava con la sua cameriera prima di trascinarla in macchina.
Ludvig se ne andò, leggero come un brano di Dave Brubeck. Pensò a come le congiunture esistenziali portino a preferire una persona, ad assaporare il piacere un brivido colpevolmente dimentico della sua origine del tutto casuale e momentanea. Niente, neppure il sentimento più puro, può scampare alle sofisticazioni di un mondo che gira indipendente. Lei, dietro il vetro scuro della macchina, mentre l’auto stava per imboccare l’enorme strada piena di luci, lesse a stralci, nel buio dei sedili posteriori, la poesia trovata nel tavolo insieme a briciole di mancia.
E ti ho pensata / Come un capello che vola via / Nell’incapacità / Mia e del mondo / Che dilata astrattamente / Particelle di un secondo.
Dopo aver accartocciato il foglio e averlo gettato dal finestrino dischiuso, riuscì a concludere un respiro profondo.