Motta Filocastro: una Fiaba tra le colline calabresi

Laura Ruggiero | L’Arte di essere Donna

C’era una volta, su un vecchio promontorio a picco sul mar Tirreno, un piccolo borgo che ancora oggi profuma di antico; le cui abitazioni si erigono su pietra biancastra e le cui strade sembrano esser state dipinte da un pennello fatato. 

Ma tutto questo non è l’inizio di una favola, bensì Motta Filocastro, piccola frazione di Limbadi in provincia di Vibo Valentia, immersa in una folkloristica Calabria e resa viva da gente che porta avanti valori e tradizioni di una Terra ancora troppo poco considerata.

Noi di CCT siamo giunti qui per farvi vivere uno dei Festival più spettacolari del Sud d’Italia. Inizio Agosto, il caldo si fa sentire già di prima mattina, dalla finestra di una vecchia abitazione in pietra e ciliegio, scorgiamo gente affrettarsi, indaffarata sotto al sole. In men che non si dica l’atmosfera del Filocastrum Fest riesce a farci scordare la nostra epoca, il new digitaly e le metropoli, e ci immergiamo come d’incanto nel lontano Medioevo.

Raccontando le gesta di Ruggero D’Altavilla, Gran Conte di Calabria e Sicilia, gli abitanti travestiti da antichi normanni e giovani pastori, conducono turisti e non in un Mondo fatto di storia, leggende e vecchi ricordi tramandati. Motta Filocastro apre le porte all’antico regno D’Altavilla, alla sua nascita, e così i cittadini aprono le loro case, botteghe e garage, che diventano teatro per vecchi mercati e scene di antiche professioni risalenti al XI secolo.

Il vecchio Frantoio ci viene spiegato da Giovanni Muzzupappa, erede del Frantoio Mafrica, che grazie alla sua passione rende tangibile, anche a noi profani, l’antica arte dell’olio. Tra danze, falconieri, musici, commedianti e giocolieri si fa festa banchettando con prodotti tipici, espressamente cucinati da donne mottesi e serviti da giovani pieni di amore per una Terra che sa donare.

La mattina seguente cambia scenario ma non clima; quando il Paese sembra sopito, ecco che una banda di suonatori inizia a risvegliare abitanti e turisti al suono di una ritmata tarantella. Parte così la festa della cultura popolare. Ci apprestiamo al Laboratorio Primi Passi, su danze e tradizioni calabresi, scopriamo l’arte di balli che ci sembravano dimenticati, ammiriamo bambini improvvisarsi con audaci piroette, scorgiamo sorrisi e pranziamo tra storie narrate e calici alzati. Terminiamo di ballare al tramonto, tra poesie e spiegazioni sugli strumenti musicali che ci hanno accompagnato in questa calda giornata estiva, grazie a Claudio Fittante e la sua famiglia.

Proseguiamo la nostra serata cimentandoci nell’argilla insieme al magnifico Antonio Tripaldi. Rimaniamo affascinati come bimbi di fronte al teatrino dei Pupi di Mattia Barbalaco e successivamente ci ritroviamo ad ascoltare i Tamburelli di Andrea Anghelone, mentre scrutiamo i dipinti del giovane Domenico Barbalace. Un tripudio di luci, suoni e colori che prosegue tra birra e cibo nostrano.

Scopriamo il bello delle serenate. Alessio, Mimmo, Peppuccio, Paolo e Antonio ci insegnano come era l’amore. Sentirli intonare canzoni in dialetto a giovani appoggiate su balconi di pietra e ferro battuto ci riporta a romantiche tradizioni. Ma non solo l’amore veniva cantato, spesso rinnegare un uomo poteva voler dire averlo sotto la propria finestra tutte le notti a suon di parole non propriamente dolci.

E mentre un gruppo autoctono suona canzoni a noi sconosciute, tra calici di birra e volti soddisfatti ci troviamo ad apprezzare i Yesnofolk e i Parafonè e scopriamo parole come inchianare (:salire) e mi spagnu (:mi spavento) e ci iniziamo a sentire un po’ più vicini a quella Calabria prima d’allora sconosciuta.

Poi tutti in Piazza a vedere ‘U ballu du cameju in cui un audace signore sfida persino le fiamme, con un imbracatura che più che un cammello a noi sembra un asino, dal cui scheletro partono fuochi d’artificio mentre danza a suon di musica popolare.

Due giorni di festa che terminano con un girotondo fatto di sogni e speranze, perché non sono semplici attori, bensì gente del luogo, giovani ed anziani che collaborano per far conoscere quella storia che è parte di loro. E allora Facimu Rota insieme a Graziano, Teresa, Silvana, Ivana, Antonio, Maria Grazia, Massimo, Irene, Corinne e tanti altri; sono persone, occhi speranzosi e cuori pieni di storia, che lavorano per estrapolare sentimenti e valori che lasciano a ciascun uomo che passa in quei luoghi una saudade tipicamente nostrana, che si può comprendere solo toccando quelle rocce e facendosi permeare da quegli sguardi.

Ed è come se il mal d’Africa si fosse spostato un po’ più a nord.

Foto di Alessia Ruggiero

Quattro case, buttate lì per caso sopra una collina accarezzata dal vento caldo del sud. Poche strade ripide e tortuose, quasi buie nelle silenziose notti senza stelle.

Molte delusioni sui volti scavati degli uomini,

rimpianti senza fine sulle labbra rosse delle giovani sognanti. Questo è il mio paese.

Tanti amici con la storia uguale e tormentata,

ricca di coraggio e speranza.

Alberi infiniti, torrenti scroscianti nei lunghi silenzi invernali. Nessuna gioia, tanta dignità nella gente che aspetta i figli lontani. Questo è il mio paese.

Questa è la gente che amo.

Giuseppe Ingegnieri

Raccolte di poesia – Il cigno Palmi (1961)

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