Elena M. Wagner | foto: Giulia Dedionigi
«Le Torri Gemelle del World Trade Center sono crollate l’11 settembre 2001.» L’incipit non poteva essere che questo. Probabilmente, è il libro più freddo e asettico che esiste sulla Storia di quel giorno e di tutti quei mesi che vennero dopo, fino all’estate 2002, nell’inseguimento ostinato, impaziente e frenetico di un unico immenso obiettivo: lo sgombero delle macerie e il risanamento del terreno.
‘American Ground‘ è la raccolta di tre grandi reportage vissuti e scritti da William Langewiesche: allora corrispondente di “The Atlantic Monthly”, era l’unico cronista ad avere libero accesso al mondo infero del Trade Center; l’unico giornalista a poter varcare ed esplorare di persona ogni area off-limits. Il libro, conclusione di 6 intensi mesi trascorsi al cantiere (quasi sempre 7 giorni su 7) e poi altri 5 mesi passati a riassumere i precedenti, stupisce per l’impressionante distacco emotivo e la particolare franchezza adoperati dall’autore. La sua pubblicazione, infatti, suscitò molte critiche.
A New York ci furono anche manifestazioni di protesta. “WTC Living History Project”, gruppo esiguo ma rumoroso, organizzò persino una campagna affinchè il libro fosse ritirato dal commercio. Aderirono alcuni civili che avevano lavorato al cantiere come volontari e altri che invece difendevano l’onore dei vigili del fuoco. Secondo loro, il racconto di Langewiesche non lodava abbastanza il lavoro svolto dalle proprie “tribù“. Il loro punto di vista intorno al cantiere del Trade Center era assai più eroico. L’inchiesta di William, invece, era troppo lontana dagli slogan di pace. Ma fin dall’inizio il suo intento, il focus della sua narrazione, è stato chiaro: la rimozione delle macerie. Nel bene e nel male, i protagonisti della sua storia sarebbero stati soprattutto i responsabili delle imprese edili. Il suo argomento era quello, e lo sapevano tutti. Così facendo, avrebbe trascurato molti altri aspetti della vicenda. Naturale. E il suo racconto non sarebbe mai stato completo. Ovvio. Ma preciso e obiettivo, sì.
Il giornalista, infatti, non rinunciò ai dettagli più antipatici: i saccheggi (di cui tutti erano a conoscenza) di sigarette, bevande, jeans o merci di valore, da parte di alcuni (alcuni, non tutti) vigili del fuoco, poliziotti, operai, etc. e soprattutto il diverso trattamento riservato alle vittime delle varie “tribù” operanti tra le macerie. Ciò non toglie niente agli “eroi” di quel cantiere. Aiuta solo a capire meglio alcune dinamiche di risentimento che si creavano tra i vari gruppi di persone più o meno attive nella zona del crollo, le dispute tra i molteplici “capi” del territorio d’emergenza e l’atmosfera tesa e difficile di quel luogo estremamente complicato, intriso di emotività e simbolismo politico e sociale, di reazione e confusione.
Per un bel po’ di tempo, le tv locali e i tabloid discussero sull’integrità controversa di ‘American Ground’. Poi però tutte le critiche si rivelarono infondate e venne dato onore al vero. Il vero che qui è la realtà quotidiana più pragmatica del dramma. Del dolore e del coraggio umano. Il vero che è anche l’aspetto più banale e complicato di quel lento e veloce cammino di risurrezione, iniziato appena dopo il crollo del World Trade Center. Nessun cliché. Nessuno slogan. Nessuna lacrima scontata. Solo la storia di un cumulo gigantesco di rovine e vite umane. Di una città, società, nazione, continente, mondo, che deve andare avanti. Di uomini che vogliono ritornare alla vita.
QUI SOTTO UN FRAMMENTO TRATTO DAL LIBRO:
“Lontano dai fotografi e dalle telecamere, la profondità di quel dolore non era sempre evidente. Le squadre di ricerca dei pompieri lavoravano seguendo uno schema fisso, a piccoli gruppi accanto alle scavatrici diesel, e setacciavano i detriti appena smossi con perizia ed efficienza. Spesso correvano rischi inutili, senza un motivo apparente: saltavano nelle voragini appena spalancate, si arrampicavano sulle macerie pericolanti, e, soprattutto, restavano per ore tra il fumo denso e la polvere, rifiutandosi con puntiglio di indossare i respiratori che portavano appesi al collo. Sembravano aver ceduto alla tentazione sconsiderata di abbandonarsi al proprio destino. Fatte le debite proporzioni, anche i poliziotti e gli operai edili vi si erano arresi. Ne ho parlato con uno psicologo, sotto il tendone dove l’Esercito della Salvezza aveva allestito la sua mensa: secondo lui, tutta quell’incoscienza scaturiva dal «senso di colpa del sopravvissuto», una reazione comune dopo i disastri. A me sembrava piuttosto un modo elementare di convivere con il dolore.
Ma quella temerarietà era anche l’espressione di uno slancio più creativo e coraggioso, legato al bisogno di agire, persino improvvisando, e faceva parte di quel nuovo, inatteso senso di libertà individuale nato sulle macerie del Trade Center. Era un modo per reagire alla mera enormità di quella disgrazia, ai dirottamenti, alle uccisioni, ai crolli: come si dice, a mali estremi, estremi rimedi. A dispetto delle divisioni, quell’istinto fondamentale era condiviso da tutti. Ed era ciò che lo spirito del luogo, a ben vedere, richiedeva.
E poi, ovviamente, c’era il Cumulo. Durante i crolli lì si era concentrata un’energia terribile, feroce, e adesso, nel corso dei lavori di rimozione, era di nuovo al centro della scena. Quel cumulo di macerie era qualcosa di estremo già di per sé. Non erano soltanto le rovine di sette grandi edifici, ma una desolazione di acciaio contorto, smisurata, inconcepibile, con pendii montagnosi che esalavano fumo e fiamme, dove si aggiravano dinosauri a diesel. Ed era cosparso di resti umani. Il Cumulo palpitava, gemeva, si modificava in continuazione, e in qualsiasi momento poteva uccidere ancora. Gli uomini non cercavano semplicemente di sgombrarlo, ma ci tornavano giorno e notte per avventarcisi contro. Il Cumulo era il nemico, l’obiettivo, l’ossessione, il terreno conquistato palmo a palmo.”
American Ground, William Langewiesche (2002)
The American Ground TODAY
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Giulia Dedionigi