Da borghi abbandonati a borghi ritrovati

Luca Bertinotti
San Severino di Centola (SA), 2010 - foto di Luca Bertinotti

Appennino senza confini: la storia di Luca Bertinotti, frequentatore e fotografo di borghi “ad abitanti zero”. Partecipa anche tu a questa narrazione collettiva su territorio e cultura della spina dorsale d’Italia!

Un progetto di CCT in collaborazione con il Corso di Studio PROGESA (Progettazione e Gestione degli Ecosistemi agro-territoriali, forestali e del paesaggio) dell’Università di Bologna insieme alla Scuola AL.FO.N.S.A. (ALta FOrmazione e innovazioNe per lo Sviluppo sostenibile dell’Appennino) promossa da UNIAPPENNINO (Università per l’Appennino) e ad ANA (Accademia Nazionale di Agricoltura).


ITALIA “Fortunato colui che ha un paese alle spalle” recitava il titolo di uno dei vari incontri virtuali*[1] organizzati quest’anno, il 2021, sul tema della desertificazione demografica e del possibile ritorno di abitanti nei luoghi lontani dagli agi cittadini. L’espressione è felice e veritiera, soprattutto se col termine paese non ci si limita a considerare soltanto l’insieme di strutture architettoniche che costituiscono un insediamento umano, ma si abbraccia anche il concetto di collettività. Dunque, è fortunato ad avere un paese-comunità alle spalle chi ha bisogno dell’aiuto degli altri per un’invalidità fisica, un handicap psichico o per uno stato di marginalità sociale (indigenza, solitudine o altro). Nel portare questi esempi, naturalmente, vengono alla mente soprattutto persone anziane e/o con deficit fisici o mentali, ma tutti noi, chi più chi meno, siamo bisognosi di una trama sociale a nostro supporto. La severità e la rapidità, con cui la pandemia da Sars_CoV2 ha accelerato lo sfilacciamento sociale (già in atto ben prima del 2020), ce lo hanno sottolineato in modo inclemente, ribadendo anche quanto sia improponibile una vita da “arroccati”, da reclusi, da solitari. In linea generale, l’uomo tende sempre ad aggregarsi, non vive bene fuori da un contesto sociale. Ognuno, anche il più misantropo, in qualche modo sente la necessità di rapportarsi con i propri simili.

Romagnano al Monte (SA), 2010 – foto di Luca Bertinotti

Dagli anni del “miracolo economico” in poi – dalla seconda metà del XX secolo in avanti, quindi – il nostro tempo è stato infarcito da un dinamismo mai conosciuto prima. Le montagne italiane (Alpi e Appennini), ma più in generale le“aree interne”*[2], si sono rapidamente svuotate di abitanti dopo il Dopoguerra, restando in alcune zone completamente deserte a favore delle città e delle zone più prossime alle coste.

Delle molte innovazioni tecnologiche, delle più svariate occupazioni e delle innumerevoli consuetudini moderne, di cui la gente ha fatto esperienza fino a renderle parte della propria quotidianità, alcune sono senza dubbio positive e vantaggiose e rappresentano un indice oggettivo di un felice progresso sociale; altre, invece, sono solo perdite di tempo mascherate da occasioni, “paludi collettive” francamente inutili, ridondanti, talvolta perfino nocive, sebbene vengano fatte passare per nuove tendenze e per fondamentali cambiamenti. Davanti a questi trabocchetti spesso abbiamo nascosto la testa sotto la sabbia, più o meno consciamente, vivendo nelle città e nelle metropoli un’esistenza sempre più stressante, spesa a rincorrere faticosamente mete personali di scarso rilievo. Ci siamo allontanati dalle nostre origini (la natura, la terra), scegliendo, invece, di radicare la nostra posizione nel mondo su livelli irrealistici, chiaramente destinati prima o poi a crollare. È un motto, ma è ormai forse anche una triste realtà, che l’uomo sia diventato schiavo della tecnologia invece di governarla e servirsene per migliorare se stesso, la propria vita e il mondo che lo circonda: un’occasione importante finora in buona parte mancata.

Brento Sanico (FI), 2012 – foto di Luca Bertinotti

Di tutto questo abbiamo pagato il prezzo, anche in termini di salute, mentre lo sviluppo scientifico in campo medico sembra alzare costantemente l’asticella dell’aspettativa di vita nel mondo civilizzato. Il rischio generale è quello di trasformare il corpo in un guscio sempre più affascinante, ma fragile e di vivere un’esistenza solo attenta all’estetica invece che soprattutto alla sostanza delle cose.

Passiamo ad altro, ma rimanendo nell’ambito delle mie competenze di medico. Al termine della prima ondata, ho già avuto modo di discutere in altra sede alcuni aspetti del contagio da Coronavirus, vissuto nell’ospedale di Pistoia dove svolgo le mie mansioni, e di esprimere alcune considerazioni personali*[3]. Andando oltre la sua tragicità, il fenomeno della pandemia ha avuto molti contorni e numerose conseguenze.

Fra gli aspetti positivi vi è stata certamente la riscoperta, ad esempio, del turismo “lento”; un vero e proprio boom d’interesse è scoppiato nei confronti dei cammini storici: la via Francigena, in primis, ma anche la via del Sale, la via degli Abati, la via degli Dei, la via dei Remi, tanto per limitarsi solamente all’asse tosco-emiliano, sono stati “prese d’assalto” e percorse a piedi fra il 2020 e il 2021 da migliaia di persone*[4]. Lasciando poi da parte i grandi tragitti, battuti soprattutto al termine della prima ondata, un numero incalcolabile di persone è andato alla scoperta (o magari alla riscoperta) di luoghi generalmente poco frequentati, vicini al proprio domicilio, durante le fasi in cui sono state in vigore – come adesso – le limitazioni di movimento imposte per fronteggiare l’epidemia. Questo non è un fatto secondario, poiché la valorizzazione della propria territorialità passa inevitabilmente dalla conoscenza diretta della zona di appartenenza.

Gairo Vecchio (NU), 2012 – foto di Luca Bertinotti

Senza dubbio, fra i “siti riconquistati” hanno fatto capolino con i loro tetti in rovina anche i borghi abbandonati d’Italia. Reduci di un passato poco illustre, fatto di esistenze frugali e spesso di miseria e per questo a lungo ripudiati dai loro ultimi abitanti fino all’oblio generale, stanno venendo finalmente alla ribalta i paesi “fantasma”, che, più che spaventare, suscitano invece sensazioni positive in virtù della loro armonia architettonica e dell’integrazione rispettosa e mai cruenta degli spazi naturali che li accolgono. Al mordi e fuggi è preferibile una visita lenta e attenta di questi luoghi non velocemente accessibili, perché non di rado raggiungibili solo con lunghe camminate all’aperto (spesso rese difficoltose dallo scarso stato di conservazione dei sentieri): saremo ripagati, però, da esperienze eccitanti, visioni incantevoli e sensazioni, idee e riflessioni personali nuove e particolari. Inoltre, questi testimoni silenziosi dell’Italia scomparsa a cavallo della seconda metà dell’Ottocento e la prima metà del Novecento appaiono per qualche aspetto tutti differenti fra loro e perciò la visita di uno sarà diversa da quella di un altro.

La memoria collettiva dei residenti dei nuovi e più confortevoli paesi nati più a valle, i figli e i nipoti di quelli fuggiti dai vecchi borghi in rovina, o le ormai rare testimonianze dirette dei pochi ultimi abitanti ancora viventi, spesso ci riportano racconti appassionanti, singolari, talmente ricchi di avvenimenti da sembrare incredibile che essi siano rimasti esclusi dai libri di storia (almeno da quelli di storia locale).

In effetti, fino a pochi anni fa i paesi senza più uomini costituivano un “sommerso” di vicende e di tradizioni sottovalutato, poco considerato, conosciuto solo da pochi “intimi”: esploratori solitari, fotografi nostalgici o studiosi interessati solo marginalmente*[5]. Da qualche anno, invece, anche i borghi deserti d’Italia costituiscono un nuovo terreno di ricerca, esplorato oggi da varie discipline sia umanistiche che scientifiche (antropologia, storia, sociologia, architettura, ingegneria, geografia, ecc.). 

San Severino di Centola (SA), 2010 – foto di Luca Bertinotti

Di questa coralità di attenzioni specialistiche si è ripetutamente occupata l’Associazione ‘9cento e ne ha favorito la divulgazione, organizzando a Pistoia un vasto simposio – Da borghi abbandonati a borghi ritrovati– nell’ottobre del 2018, il primo a carattere nazionale specificamente rivolto al tema dei borghi abbandonati d’Italia. L’evento, riconosciuto meritevole della Medaglia del Presidente della Repubblica, ha ricevuto il patrocinio di molti Enti, locali e nazionali, e ha ospitato come relatori molti dei principali studiosi del fenomeno dello spopolamento in Italia. A questo, nel 2020, è seguita una corposa produzione editoriale: il libro, che porta lo stesso nome del succitato evento*[6] e che è stato pubblicato dalla casa editrice Aracne, contiene, oltre agli interventi dei numerosi relatori, molti contributi post-congressuali scritti da ricercatori e frequentatori del fenomeno dell’abbandono dei borghi. Non poche sono state le attenzioni mediatiche rivolte al volume*[7].

Ho avuto la fortuna e l’ardire di curare la raccolta di saggi e di inserirne alcuni da me scritti, tuttavia non posso certamente definirmi niente di più che un frequentatore (anche se assai meticoloso) di luoghi abbandonati. Per oltre dieci anni ho messo in atto un attento programma di riscoperta esplorativa e fotografica dei borghi “ad abitanti zero” in ogni regione italiana, che annovera complessivamente un po’ più di cinquecento siti. Di questi insediamenti ormai in precipitosa rovina ho potuto raccogliere un considerevole corpus di immagini, scattate per conservarne almeno la memoria visiva.

È anche vero che fin dall’inizio della mia attività di ricerca ho sentito la necessità di analizzare più compiutamente la realtà dei posti che visitavo e, quindi, di reperire informazioni, quando possibile, su libri, nel web, dialogando con gli studiosi, con le associazioni locali, con i residenti dei paesi vicini e qualche volta (molto più raramente) con gli ex abitanti. Perciò, questo lungo viaggio compiuto nello spazio e nel tempo si è arricchito anche di una preziosa rete di relazioni interpersonali intessute negli anni.

Craco Vecchia (MT), 2010 – foto di Luca Bertinotti

Di questi rapporti è stato fatto tesoro, come già detto, nell’ambito delle attività promosse dall’Associazione ‘9cento e il convegno del 2018 è stata un’occasione importante per approfondire i temi cari all’abbandonologia. Per inciso, quest’ultimo è certamente un termine sgraziato, ma, purtroppo, non ha ancora trovato un degno sostituto. Se ne potrebbe proporre qualcuno meno cacofonico, come “Vàstologia” (dal latino vasto: distruggo, spopolo, sconvolgo), o “Egèrologia” (da ēgĕro: vuoto, spoglio, spopolo) o, ancora, “Intèreologia” (da intĕrĕo: scomparire, estinguersi, andare perduto, andare in rovina, cadere in disuso); qui, però, userò il termine ancora in auge. Che cosa studia l’abbandonologia, dunque? Essa si occupa di quei posti dove non abita più nessuno da un tot numero di anni: dalla fine del Settecento al periodo attuale, con un grosso, pesante, importante segnalibro posto fra gli anni Cinquanta e Settanta del Novecento, gli anni del “miracolo economico”.

Su questo ventennio d’oro della storia d’Italia sono già state fatte molte riflessioni da studiosi autorevoli. Io mi limito invece a raccontare una sorta di sogno a occhi aperti. Alle volte mi è capitato di riflettere su quale potrebbe essere oggi la situazione dei tanti luoghi che ho visitato nei miei dieci anni di peregrinazioni e che forse sono a mala pena la metà di quelli effettivamente esistenti (manca ancora un registro nazionale ufficiale). Penso a come sarebbe potuta andare se il boom commerciale si fosse svolto non come un’esplosione irrispettosa di tradizioni e di modi di vivere extra-cittadini, ma solo come un lento, graduale, progressivo miglioramento della qualità di vita generale; una “marea buona” che, risalendo dalle città, avesse raggiunto piano, piano anche le borgate meno accessibili, anche le frazioni più impervie, non solo scegliendo di risparmiarle, ma anzi fortificandole, potenziando i valori e colmando le carenze.

È ovviamente una storia immaginaria, questa, o, se si vuole, un racconto “altro” di cui oggi è interessante parlare non in senso “fantastorico”, ma poiché in qualche modo, con tempi, con attori e con presupposti del tutto diversi sembra quasi descrivere l’attualità che stiamo vivendo da pochi anni a questa parte. La lettura dei quotidiani e del web ne danno riprova e iniziano a essere quasi all’ordine del giorno le segnalazioni di giovani o di meno giovani che scelgono un percorso di vita consacrato alla nuova ruralità e segnato dal trasferimento nelle “terre alte”, anche in virtù delle nuove possibilità fornite dallo smart working praticato nei e dai piccoli borghi italiani*[8].

Lòzzole – Palazzuolo sul Senio (FI), 2020 – foto di Luca Bertinotti

Personalmente sono un fervido sostenitore dell’esigenza di ripensare la società dell’oggi: bisogna riformulare i paradigmi economici, le priorità sociali, le direzioni personali da prendere. Occorre una scelta diffusa verso nuove modalità dello stare insieme al mondo, come quella di chi de-centralizza lontano dalle città il proprio fulcro di vita: neoagricoltori e city quitters*[9]. Anche questo – certamente non solo questo! – potrebbe essere un modo per incidere su una serie di questioni di urgente importanza che riguardano aspetti negativi del vivere odierno (i rapporti interpersonali ormai diffusamente deteriorati; le disparità sociali sempre più spiccate; le incertezze, le difficoltà, l’insoddisfazione, l’infelicità personale, finanche l’incidenza di alcuni tipi di patologie e, almeno in parte forse, gli squilibri climatici che sembrano aumentare in questo nostro secolo).

Borgata Masonasse di Servino, Ronco Canavese (TO), 2017 – foto di Luca Bertinotti

D’altra parte non vedo solo cose positive all’orizzonte di chi sceglie di lasciarsi alle spalle il caos metropolitano. Purtroppo i marchi del nostro tempo sono la facile infatuazione, la precipitosa autoconvinzione, il passa parola che diventa verbo e negli ultimi anni si è avuto un bel fiorire di iniziative, pubblicazioni, trasmissioni televisive e discussioni internet inneggianti a un augurabile ritorno alle terre alte. Va detto, invece, che molti di quelli che abitano in città e che sognano di trasferirsi in montagna hanno in mente un’idea vaga, troppo idilliaca, della questione e ignorano i più minuti risvolti pratici, che sono quelli che caratterizzano concretamente la quotidianità. Una quotidianità che non sarà assolutamente sempre e soltanto rose e fiori. La “verticalità” non è una caratteristica immediatamente digeribile per chi non vi è avvezzo: non è scontato che sia semplice per tutti vivere bene ad altitudini ultra-collinari sia per l’impatto con condizioni climatiche più rigide (a cui comunque col tempo ci si può abituare), sia per l’aumento delle distanze e per le difficoltà degli spostamenti, sia per la diffusione ancora insufficiente di mezzi tecnologici in montagna, sia per la limitatezza della rete dei servizi, sia per la difficoltà di approvvigionamento di alcuni beni di consumo, sia, infine, per l’isolamento. E la repentina rarefazione di persone che si crea attorno a chi sceglie di vivere ai margini non restituisce sempre una sensazione positiva, ma può determinare anzi un grave senso di solitudine e di angoscia, fino a causare talvolta vere e proprie psicosi*[10].

Quindi, fugato con decisione un inutile ritorno di fiamma del mito del buon selvaggio (sia pure montanaro, nel nostro caso), penso invece che dovremmo riflettere bene sulla scelta frettolosa che qualcuno sembra proporre di tornare lassù e basta, di sostituire, cioè, il mondo perduto semplicemente con un mondo nuovo, che dovrebbe ipso facto riportarlo in vita.

Cosa fare dunque? Innanzitutto ritengo che sia necessario e per ovvie ragioni di anagrafe anche molto urgente parlare con coloro che “sanno” e capire da loro, cioè gli ultimi sopravvissuti dell’Italia prima del miracolo economico; registrare le loro voci e i loro ricordi; scandagliare quelli spiacevoli oltre a quelli più “luminosi”; incitare le riflessioni meno ovvie, quelle più intime, più scomode, più dure; informarsi bene sui trabocchetti, sulle impurità, sulle malignità, sui dolori, sulle paure che hanno attanagliato le vite delle donne, degli uomini e dei bambini, che da lassù sono venuti via; comprendere fino in fondo le ragioni che li hanno spinti a cedere alle lusinghe dell’urbanizzazione. Magari creare qualcosa di simile a una vera e propria banca dati del sapere e del saper fare ancora rintracciabili. Disegnare quindi una mappa di viaggio più dettagliata, più completa possibile per anticipare le esperienze che lassù ci aspettano. 


Note* 

  1. L’evento cui faccio riferimento si è svolto online il 28 gennaio 2021 a cura di La Scatola di Latta e Daìmon: A scuola per restare. Va segnalata la meritevole attività svolta da Gianluca Palma, fondatore delle suddette organizzazioni culturali, le quali contano al loro attivo già numerosi seminari che hanno favorito la conoscenza reciproca e lo scambio di idee fra molti esperti sul tema dello spopolamento e del ritorno alle aree interne d’Italia.
  2. Col termine “area interna” si indicano i territori che al giorno d’oggi si trovano distanti dai servizi essenziali (istruzione, salute, ecc.), carenti di infrastrutture e di una adeguata rete per la mobilità.
  3. Cfr. L. BERTINOTTI, Pandemie urbane e schiocchi di dita elfiche. Cronache da realtà parallele in tre tempi, in «Dialoghi Mediterranei», 1 luglio 2020, edito online.
  4. Cfr. M. MONTARULI, Italiani popolo di camminatori: è il trekking l’attività più praticata nelle vacanze 2020. A basso impatto, slow, minimalista: praticata dal 39% dei vacanzieri, diventa un modo nuovo di visitare i territori, in «Il Sole 24 Ore», 12 gennaio 2021, edito online.
  5. Fanno eccezione, per il Sud Italia, Vito Teti, antropologo che ha vissuto l’abbandono del Meridione nella sua San Nicola da Crissa (VV) e lo ha descritto in numerosi testi a ponte fra il divulgativo e lo specialistico, fra cui Il senso dei luoghi del 2004 e Quel che resta del 2017; per il Nord Italia, Antonella Tarpino, piemontese, storica e autrice di Geografie della memoria del 2008, Spaesati del 2012 e Il paesaggio fragile del 2016; o ancora, in un ambito non accademico, Antonio Mocciola, giornalista, ma anche autore di teatro, scrittore e altro, che ha scritto un paio di veri best seller, molto noti fra gli appassionati dell’argomento: Le vie nascoste. Tracce di Italia remota del 2011 e Le belle addormentate del 2015.
  6. L. BERTINOTTI (a cura di), Da borghi abbandonati a borghi ritrovati, Aracne, Roma 2020.
  7. Fra le altre cito la dotta recensione di A. CUSUMANO, Dalle macerie alle rovine, dalla resistenza alla rigenerazione, in «Dialoghi Mediterranei», 1 gennaio 2021, edito online. 
  8. Proprio andando in questa direzione, confidando in un vicino futuro Covid-free, l’Associazione ‘9cento ha intenzione di organizzare prossimamente un secondo incontro nazionale per discutere soprattutto sul ritorno, sui “borghi ritrovati”, cioè, con relatori che presenteranno le possibili modalità e gli esempi di ritorno ai luoghi fragili.
  9. E. COEN, 2020, fuga dalle metropoli. La carica dei city quitter in cerca di natura e Web ultraveloce, in «L’Espresso», 26 novembre 2020.
  10. Rimando su questo tema alle pubblicazioni: A. SALSA, Il tramonto delle identità tradizionali. Spaesamento e disagio esistenziale nelle Alpi, Priuli & Verlucca, Scarmagno (TO) 2007 e C. ARNOLDI, Tristi montagne. Guida ai malesseri alpini, Priuli & Verlucca, Scarmagno (TO) 2009. Da queste letture si capiranno bene alcune delle motivazioni che hanno favorito l’allontanato delle persone dai paesi oggi abbandonati.

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