Live Wine. Pensieri laterali da una manifestazione sul vino

Dario Nardii

MILANO, 5 Marzo 2016, Palazzo del Ghiaccio [1]

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Dietro un banchino troppo piccolo per lui, che è grande, in senso fisico e figurato, un monumento dell’enologia mondiale, Damijan Podversic, si permette, dall’alto della sua indiscutibilità, di fare affermazioni discutibili.

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Il grande Damijan Podversic

Cerca di costringere un povero malcapitato nella folla dei pretendenti a un assaggio (un tizio ragionevole, che aveva fatto osservazioni ragionevoli, ma che davanti al guru rischia di passare da eretico) a degustare un vino rosso prima dei bianchi. Alla condivisibile obiezione del curioso assaggiatore, l’eroe vitivinicolo risponde dicendo che il rosso va bevuto prima perché i grandi vini sono i bianchi, non i rossi; e i grandi vini, si sa, vengono dopo. Giustifica la soggettivissima affermazione con oggettivi esempi che sono tutt’altro che definitivi ma che in ogni caso bastano a convincere la platea (che si nutre di retorica più che di logica) della superiorità delle sue posizioni: i bianchi possono passare più tempo a contatto con le bucce, estraendo da queste più sostanze preziose; i rossi (quali rossi?) mettono sete, i bianchi invece no, e un paio di altri tecnicismi con cui evito di ammorbarvi. Al che il piccolo Savonarola, saggiamente, benché oramai vinto dal carisma dell’interlocutore e denudato della sua credibilità dall’autorità dell’autorevolezza [2], si azzarda a far notare che forse le parole del viticoltore sono dettate dal fatto che i suoi grandi vini sono bianchi, e che probabilmente una certa “deformazione professionale” (chi vuol esser maligno sostituisca pure “deformazione” con “interesse”) lo spinge a dar più importanza a una tipologia piuttosto che all’altra. Viene liquidato con l’asserzione ineluttabile, incontrovertibile, che il vino è una bevanda oggettiva. Triplice fischio, partita finita. L’ortodossia dei corsi per sommelier e assaggiatori finalmente vinta dal radicalismo di un’enologia anticonformista.

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I vini di Emidio Pepe, da decenni un riferimento in Abruzzo e nel mondo
I vini di Emidio Pepe, da decenni un riferimento in Abruzzo e nel mondo

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Etichette sovversive
Etichette sovversive

Podversic è un Galileo sopravvissuto allo sdoganamento delle sue scoperte, alla canonizzazione della sua eresia. Riconosciuto ormai unanimemente dal mondo del vino come uno dei migliori interpreti del proprio territorio (e a ragione: correte a provare i suoi vini, se non l’avete ancora fatto, infedeli!), carismatico abbastanza da affascinare il pubblico, la sua esperienza non ha bisogno di ulteriori garanzie, e quel che dice non passa sempre necessariamente dal vaglio della valutazione critica. Il suo attaccamento alla terra e al frutto, la sua insistenza sulla spiritualità e sulla poeticità del vino, prodotto che l’uomo dovrebbe limitarsi a rispettare e che invece si ostina a deteriorare con tecnicismi invasivi e con interventi chimici, restituiscono al vino quell’umanità che sembra spesso andar perduta nei manuali di enologia e nelle parole degli esperti, che come manuali parlano. Ma il merito delle parole di Podversic non sta nel rivelare una verità assoluta: al di là della ragione o del torto, quelle parole fondano un umanesimo del vino, lo romanticizzano, facendoci comprendere, di più e meglio di qualsiasi formula chimica, quello che ci succede quando il vino lo beviamo, quando lo osserviamo, quando ne discutiamo. Il vino ci affascina anche perché non siamo in grado di spiegarlo completamente. Gli elementi chimici che lo compongono, tanto per tirar fuori l’esempio più banale, non sono tutti noti, e cambiano di vino in vino; e questo mistero apre le porte del sogno e fa entrare il vento della poesia. L’armonia di un bicchiere di vino, le sensazioni che un sorso del Nekaj di Podversic possono suscitare, gli scombussolamenti che una bottiglia può generare, forse non avrebbero lo stesso effetto se il metodo di produzione del vino fosse quello della Coca Cola. È la complessità, quella scintilla di mistero che sfugge al controllo, quello scarto che spiazza la deterministica causalità e inganna le logiche aspettative, quel che meraviglia in un sorso.

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Dario Princic, uno dei miei preferiti

Così, assistendo a quella scena, mi viene in mente una cosa bellissima che scrisse Manuel Vázquez Montalbán nelle sue Ricette immorali. Cito a braccio, non me ne vogliate se le mie parole non rendono un briciolo di onore alle sue, bellissime: Non si sa di nessuno che sia riuscito a sedurre con ciò che aveva offerto da mangiare; ma esiste un lungo elenco di coloro che hanno sedotto spiegando quello che si stava per mangiare.

Ecco, quasi mai quello che ci succede in senso strettamente fisico, biologico, organico, è ciò che determina le nostre sensazioni, in maniera diretta e assoluta: piuttosto, è come lo viviamo, come lo interpretiamo, come ce lo raccontiamo. La sensazione “pura”, avulsa dalla nostra esperienza, non esiste. Il nostro gusto si è sviluppato in un contesto culturale che ci ha educati ad ascoltare le nostre sensazioni, a interpretarle e a regolare di conseguenza le nostre reazioni. Per questo nessuna bevanda può essere una “bevanda oggettiva”, come la definisce Podversic; e meno male, dico io, altrimenti il vino rischierebbe di non piacermi più (e a Podversic rimarrebbe ben poco da dire).

Il viaggio nel mondo del vino è così coinvolgente perché evoca terre lontane e dolci colline, racconta storie di uomini, filosofie, vite e passioni; ci dice qualcosa di noi, della vita, della natura. Niente di così oggettivo, insomma. (E io continuo ad assaggiare prima i bianchi).

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[1] Quelli che seguono sono pensieri liberamente tratti da un intero sabato passato alla bella manifestazione organizzata ogni anno al Palazzo del Ghiaccio di Milano: Live Wine, il Salone Internazionale del Vino Artigianale. Volontariamente, ho deciso di evitare di fare un resoconto della manifestazione, che potrete facilmente leggere da altre firme, più informate e più capaci di me. Non vi parlerò, quindi, degli oltre centoventi vignaioli presenti, provenienti da otto paesi (Italia, Slovenia, Francia e Germania i più rappresentati), della meravigliosa territorialità dei vini de I Clivi (la ribolla, la malvasia e il friulano), o del fascino carnevalesco dei cannonau di Giuseppe Sedilesu. Non vi dirò nemmeno della curiosità con cui ho assaggiato bianchi sloveni del 1997, delle puzze tremende che qua e là ho sentito, del fascino dei vini di Dario Princic, e neppure della pervicacia con cui alcuni integralisti del vino “naturale” si ostinano a spingere le macerazioni all’estremo, facendo ossidare i loro vini e ottenendo il risultato contrario a quello cercato: renderli tutti uguali. No, scrivendo di vino in una rivista che si occupa per lo più di luoghi, persone e viaggi, cercherò piuttosto di spiegarvi perché il vino vale il viaggio.

[2] Il gioco di parole per dire che, in qualsiasi ambito, chi gode già di una certa autorevolezza, gode anche di un’autorità che gli rende più facile la vita di fronte alle critiche eventuali (e sì, lo so che le note a piè di pagina poteva permettersele solo David Foster Wallace, ma datemi il diritto di scimmiottarlo, perlomeno).

Non solo bere.

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