Muoversi

Dario Nardini

Dove andrà tutta questa gente? Cosa farà nella vita? Aspettando in aeroporto ti viene una gran voglia di saperlo. Così tante storie, così tante vite – chissà quante interessanti, chissà quante ignobili, chissà quante trascurabili – si incrociano, scambiano, incontrano, senza mai toccarsi per davvero.

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Questo signore tutto sporco accanto a me, per esempio, che fissa con tanta insistenza le altre persone, chi sarà? Che gliene fregherà di loro? O quella signora col cappotto bianco, seduta di fronte al distinto marito, che ricontrolla le carte d’imbarco con tanta cura, quasi potessero dissolversi tra le sue mani, lasciandola a piedi. Da dove verrà? Cosa farà nella vita? Avrà mai preso un aereo prima? C’è un ragazzo – francese o italiano, non saprei – vestito decisamente bene, elegantemente casual (o casualmente elegante, che è un po’ la stessa cosa), che mi ricorda di fermarmi a comprare un maglione che avevo visto tempo fa nella vetrina di un negozio, e che somiglia molto a quello che ha indosso lui. Ha appena finito di mangiare il suo pranzo – un panino – e beve distrattamente la sua aranciata in bottiglia da un bicchiere, mentre digita chissà quali parole, chissà poi per chi, dallo schermo touch del suo telefono. Di certe persone, invece, ti accorgi solo nel momento in cui si alzano. L’anonimato della loro apparenza corrisponderà all’anonimato delle loro esistenze? Credo proprio di no, questo dev’essere un abbaglio.

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Ho letto da poco un libro sulla fotografia. Dice che la fotografia è il medium che ha assunto come soggetto ciò che di solito non assurge all’attenzione mediatica: la vita quotidiana, la banalità, l’ordinarietà. Sarà questo occhio fotografico, questa pedagogia dello sguardo, questa sovraesposizione a certi tipi di immagine, che ci ha educati a vedere il mondo con tanta curiosità, a essere così indiscretamente interessati alle Vite degli altri (tanto per dimostrare una certa disinvoltura inter-mediale nelle citazioni), alle persone, alle loro storie? Sarà la cultura dell’immagine e la surrealista elevazione ad arte delle immagini più “ordinarie” che ci ha resi così pettegoli?

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Io sono convinto del contrario: è l’interesse che abbiamo da sempre per le storie di vita, per le storie degli uomini, per gli uomini, nella loro ordinaria ma – guarda un po’ – profondamente umana semplicità e ricchezza che ci ha fatto apprezzare così tanto l’unica arte che, insieme al cinema, ha fatto di quelle storie il suo soggetto principale e direi quasi esclusivo. L’arte che ambisce al sublime è sempre stata poco accessibile. Oggi poi, non sappiamo che farcene: abbiamo bisogno di un’arte che si occupi di noi, che parli di noi, che ci mostri che siamo fatti di meschinità, ma anche di gesti non comuni; di genialità, ma anche di vergogna; di razionalità e di paure incontrollabili; di egoismo e di incredibili atti di fede; di cattiveria e di inspiegabili gesti d’amore; di semplicità e di meraviglia. Esseri straordinariamente ordinari.

In un aeroporto si può trovare, nei volti delle persone, un po’ di tutto questo. O almeno lo si può intuire. Perché è in tutto questo, in fondo, che si nasconde la poesia. Perché l’immaginazione si nutre di realtà. E di curiosità, che è il motore del movimento. O forse è il movimento il motore della curiosità? Muovetevi.

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* 09/02/2012. Scritto in una lunga attesa all’aeroporto di Marsiglia, di ritorno da un viaggio di ricognizione a Rennes – dove di lì a poco avrei abitato per sei mesi per raccogliere il materiale per la mia tesi di laurea -, in un periodo particolarmente ispirato e dannatamente entusiasta della mia vita. Il libro di cui parlo è Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società, di Susan Sontag, un classico della letteratura sul tema. Consiglio di leggerlo a chiunque non l’abbia ancora fatto. E consiglio a tutti di muoversi, perché, ora che ci penso, è proprio il movimento il motore della curiosità, e anche dell’entusiasmo, quell’entusiasmo che avevo quando decisi di muovermi come non avevo mai fatto.

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