Nánjīng, l’antica Capitale del Sud

Andrea Nardini

“If the idea of revolution is to win out, it must be trough political enlightenment. It is useless to try to impose it by force of arms”. – Sun Yat-sen

Shànghǎi Railway Station. Mattina. La stazione è praticamente un aeroporto: check-in, controllo bagagli, attesa al gate con tanto di biglietto elettronico. Binario 7. Alle ore 9:59 il treno si lascia alle spalle la città. Corre veloce, sul serio. Arrivo a Nánjīng – che significa “Capitale del Sud” – con 5’ minuti di anticipo rispetto alla tabella di marcia (qualsiasi riferimento a enti di trasporto pubbliche/private italiane è puramente casuale ndr). L’aria che si respira è eccezionalmente fresca, lontana parente di quell’oppressiva umidità mista ad inquinamento tanto cara alla Parigi d’Oriente. Salgo su un taxi. La tariffa è ancora più economica di Shànghǎi, dove non è che ci si rovini passeggiando su 4 ruote. Con 20 rmb (2,50 €) attraverso buona parte della città, laddove inizia la mia piccola avventura all’interno di quella che per lungo tempo è stata capitale dell’Impero Cinese.

Nánjīng Museum

Lo snodo metropolitano più rilevante è sicuramente Xinjiekou. Il posto è pieno di luci. Flussi d’illuminazione si riversano ai lati delle torreggianti cromo&vetro strutture dei giganteschi shopping mall che costeggiano la carreggiata. Finestre a vetro enormi conservano e riflettono il bagliore delle numerose auto che percorrono le vie di Nánjīng. No. Non siamo a Shànghǎi, e nemmeno a Hong Kong. Nanchino (così la chiamiamo in Italiano) non è una qualsiasi metropoli moderna cinese. Ciò che dà identità a Nanchino non sono un grattacielo di cento piani costruito in due mesi o forme architettoniche futuristiche, bensì monumenti, gruppi scultorei, statue, busti e rovine di un’antica storia millenaria. Persino qua, a Xinjiekou, ci possiamo imbattere in una delle tante sculture dedicate alla figura di Sun Yat-sen, altresì noto come il “padre della Cina moderna”, capitano e leader della Rivoluzione che nel 1911 portò alla liberazione del paese dal potere imperiale, ufficializzando al tempo stesso Nanchino come capitale della Repubblica Cinese nel 1912. Una statua maestosa, che sembra mirare lontano, oltre il flusso costante di traffico e pedoni, con autorità e distacco.

La città è viva. Piena di storia. Ovunque, a 360 gradi. Erano mesi che non vedevo una montagna. Infatti, camminare per il distretto di Nanchino è davvero faticoso ma contemporaneamente agevole e rilassante. Un continuo saliscendi, scale, scalini, scalinate, salite, discese. Strane anomalie abituati alla “padana Shànghǎi”. Cammino. Non mi fermo un secondo, non mi stanco, circondato come sono da una natura che scozza in modo evidente con tutto quello che i miei occhi hanno visto nei 5 mesi appena trascorsi qua in terra orientale. Un ticket irrisorio grazie ad uno sconto ottenuto con la tessera di una biblioteca universitaria fiorentina, mi permette di entrare in un luogo che davvero faccio fatica a descrivere a parole. Spero che le immagini si assumano quest’ardua responsabilità.

Dr.Sun Yat-sen’s Mausoleum

Il Mausoleo di Sun Yat-senLa strada verso questo santuario è davvero maestosa: un cancello a tre arcate, fiancheggiata da filari di pini, cipressi ed alberi di “gingko” 銀杏 (piante originarie dell’Asia centrale, rese note anche nel resto del mondo grazie alle proprietà che li conferiscono doti protettive nei confronti di cuore, vasi e sistema nervoso). Le parole incise sul frontespizio della prestigiosa entrata recitano così: “Che cosa è sotto il cielo, è per tutti” – inequivocabile dichiarazione del grande uomo sui principi di egualitarismo. Basta poi fare un passo all’interno del mausoleo e alzare gli occhi verso il soffitto: una formidabile stella bianca si adagia sullo sfondo blu oceano, un disegno preso in prestito dalla bandiera del “Kuomintang” 中国国民党 (partito nazionalista cinese). Entrando poi al centro della sala, si trova una statua di pietra alta 4,6 m del Dr. Sun Yat-sen. L’opera fu scolpita su marmo bianco italiano. Ai piedi della statua, ci sono sei rilievi che espongono la vita gloriosa di Sun Yat-sen. Quest’ultima dimora del primo Presidente della Repubblica Cinese, terminata nel 1929, è considerata oggi il mausoleo più rilevante nella storia cinese di architettura moderna.

Jinling Woodblock Carving e Printing CenterUno dei punti salienti della cultura dell’antica capitale imperiale è la tradizione della stampa xilografica, che raggiunse il suo massimo sviluppo nei laboratori del Jinling Buddhism Publishing House, ora l’unico editore superstite di blocchi di legno utilizzati per scritture buddiste in cinese. Come non si può capire un libro dalla sua copertina, è impossibile allo stesso tempo definire una casa dal suo cortile, piuttosto anonimo, nascosto in un angolo di Huaihai Road. Contiene più di 125.000 blocchi di legno di caratteri cinesi usati per la stampa dei sutra buddisti. Ed è la più grande “biblioteca” del mondo. Il centro ospita anche una collezione incredibilmente enorme di classici antichi e rarissimi, compresi quelli tradotti dal monaco Xuanzang (602-664), che riportò con sé dal suo viaggio in India testi buddisti, durante la dinastia Tang (618-907). Le attività primarie di quest’antica “casa editrice” sono la stampa di sutra arcaici, ma anche l’insegnamento. Infatti, oltre a preservare questi manoscritti, all’interno dei laboratori vengono trasmesse le tecniche pratiche di intaglio e stampa, usufruendo di una collezione di quasi 130.000 blocchi di legno. Nel maggio 2006, le tecniche di stampa su legno utilizzate da questo centro sono state dichiarate dal governo “parte del patrimonio culturale cinese” e scelti per una protezione speciale. Uno storico intagliatore (carver) Ma Mengqing inoltre è stato onorato dal governo della regione del Jiangsu come uno dei custodi del patrimonio culturale della provincia.

Nánjīng Massacre MemorialLo spazio si estende per oltre 180.000 metri quadrati, tra cui il “Pozzo di 10.000 cadaveri”. Il monumento è costruito sul luogo stesso in Jiangdongmen nel sud-ovest della città, dove nel dicembre 1937 sono stati scaricati e massacrati dall’esercito giapponese più di 300.000 cinesi. Una scultura gigante di una donna smarrita si trova quasi sminuita da un vasto mare di ciottoli; la dimensione e il loro colore assumono le sembianze di teschi e ossa. Mani scolpite su di un muro di prigionieri bendati, scolpite in rilievo, in attesa di essere macellate. Scheletri reali si trovano sparsi in un mucchio aggrovigliato nella fossa. Immagini raccapriccianti di torture sadiche, consumati su corpi di donne innocenti, che davvero non avevano niente a che fare con quell’orribile guerra. Corpi di bambini mutilati, completamente squarciati dall’esplosione di mine appositamente piazzate dalle crudeli milizie giapponesi. È un museo della memoria. Dove tutto è agghiacciante quanto allo stesso tempo disgraziatamente reale. Questa è l’idea. Non dimenticare: “Past experience, if not forgotten, is a guide for the future. People can create a better future by looking back on the past”. La sala memoriale è una stanza buia, illuminata ad intermittenza da candele. Le fiamme si moltiplicano indeterminate, riflettendosi contro l’acqua che scorre sul pavimento e sulle pareti nere lucide. Statue e busti di sventurati uomini, donne, anziani e bambini sembrano urlare all’interno di un silenzio surreale, fatto di ricordi e ferventi appelli: “mai più”. La strada che si percorre per entrare nelle varie sale del museo è pavimentata da lastre di ghisa contenenti le impronte di sopravvissuti all’olocausto. Uscendo nel parco che delimita la zona, ci sono tante panchine. Centinaia di persone sentono il bisogno di sedersi, almeno 10 minuti a riflettere e provare a digerire quello che i loro occhi hanno appena compreso. “Probabilmente non c’è crimine che non sia stato commesso in questa città oggi. Trenta ragazze sono state catturate nella scuola di lingue la scorsa notte, e oggi ho sentito storie strappacuore di ragazze rapite dalle loro case: una di esse non aveva più di dodici anni. Oggi è passato un camion su cui c’erano 8 o 10 ragazze che ci hanno gridato “Jiu ming! Jiu ming! (salvateci la vita!)” – (Dal diario di Minnie Vautrin, 16 dicembre 1937). Ricordare questa atroce e macabra storia, in nome di coloro che hanno sofferto e perso per sempre i loro affetti, è un’esperienza forte e difficile ma anche importante per pensare e riflettere un po’ sul significato di umanità e sul perché a volte l’uomo dimentica di essere umano.

È tempo di tornare a casa. Risalire sullo stesso treno che mi ha portato fin qua. Strano il destino. Ricordo un giorno, chissà quando, che curiosavo alla ricerca di notizie su questa magica terra cinese. La piattaforma YouTube mi proponeva ed elencava tra i “video selezionati per l’utente” anche uno amatoriale di turisti spagnoli in villeggiatura a Nanchino. Ho ancora in mente frammenti di quelle scene, immagini, suoni, voci. Riviste e rivissute in questi 3 giorni invernali. Giuro che dopo anni, mi sono sentito quel ragazzo con accento castigliano che con la sua telecamerina riprendeva le giornate in compagnia di amici. E mi sento quasi in dovere di ringraziarlo, perché è un po’ come se dentro di me qua ci fossi già stato, sapendo che un giorno ci sarei tornato. Questo articolino è anche per te (Luis? Ramon? Felipe? Ricardo? Boh!). Piccole sensazioni, piaceri e luoghi che mai avrei pensato di poter vivere ed ammirare dal vivo. Sono diverso da quando sono partito. Migliore? Peggiore? Non lo so. Ma non riesco a smettere di fantasticare con la mente, immaginare di viaggiare altrove, prendere il primo treno, farmi anche 40 ore in un vagone pieno zeppo di anime e individui sempre in viaggio. Camminare tra luoghi e persone. Essere curioso. Non voglio perdere tempo. Ho già dato. La vera Cina è qua che mi aspetta. E mi permetto un piccolo plagio, CCT sarà clemente…

 “I’ve touched a different life”.

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