Elena Mazzoni Wagner
CLET e CCT si sono incontrati per la prima volta quest’estate, a Pietrasanta (in via Barsanti), su un cartello stradale. Uno di quelli arancioni che dicono “attenti ai bambini in circolazione”. CCT, un anno fa, ci aveva messo uno dei suoi street sticker e CLET, lo scorso luglio, ha intrapreso la sua attività (notturna) di street artist anche qui. Da allora condividono quel cartello segnaletico.
Clet Abraham è un artista francese, nato in Bretagna il 2 ottobre 1966. Da anni vive a Firenze, dove ormai è impossibile non vedere i suoi lavori: sono su (quasi) tutti i segnali stradali! Ma viaggia spesso e infatti i suoi adesivi si possono incontrare per le strade di Arezzo, Bologna, Milano, Torino, Roma, Sassari, Parigi, Londra, Valencia, etc. Li attacca sui cartelli di notte, quando la città dorme. Solitamente da solo, talvolta con qualche amico o volontario. Ha iniziato un anno fa a lavorare come street artist e già tantissimi adorano le sue opere. Ma non tutti. Ad esempio, la Polizia Municipale di Pistoia – ricordiamo che Pistoia è nominata Città d’Arte – che lo scorso 10 luglio ha schedato 54 cartelli e rimosso altrettanti adesivi; ha definito Clet un “imbrattatore” e lo ha quindi multato per 2.112,60 euro. Si tratta davvero di vandalismo? Di solito viene chiamata Street Art o arte urbana. In questa video intervista, Clet ci racconta cosa significa essere un “artista di strada”.
Firenze, 26 Agosto 2011
Clet, ti ricordi dove e quando hai attaccato il primo adesivo?
Il primo adesivo, un Cristo sulla strada senza uscita, l’ho attaccato lo scorso anno nel mio quartiere di San Niccolò. Era il 14 luglio, anniversario della presa della Bastiglia, evento che nel 1789 segnò l’inizio della Rivoluzione Francese. Il Corriere Fiorentino ne parlò per primo in un articolo qualche giorno dopo.
Perché hai scelto Firenze?
In pratica perché ho un figlio grande nell’aretino. Quando mi sono separato da sua mamma, volevo stare in città (essere single nell’aretino non è il massimo). Ma volevo anche stare vicino a mio figlio e quindi ho scelto Firenze. Non sono venuto in Italia per passione. Sono arrivato vent’anni fa, a Roma, per lavoro. Per me contava solo uscire dalla Francia e l’Italia mi presentò un’occasione. Cercavo un luogo dove stare ed eccomi qua. Poi, evidentemente, ci sono rimasto perché mi piace.
Tra i soggetti dei tuoi disegni surrealisti, emerge la città e la caffettiera.
Sono un artista di comunicazione visiva, collego sempre l’idea ad un oggetto. E la caffettiera è un oggetto bellissimo. Infatti, ha un successo internazionale. Vivendo a Firenze, ho poi scoperto che porta in sé le strutture architettoniche del Battistero di questa città, ma anche di Pistoia, ad esempio. Ha lo stesso numero di lati e la stessa tipologia di cappuccio. Chi ha disegnato la caffettiera, credo fosse toscano, ha comunque trasmesso il suo bagaglio estetico in questo piccolo oggetto che parla anche dell’architettura italiana. Le torri ottagonali le troviamo ovunque in Italia. È curioso studiare l’origine del design di un oggetto così popolare in tutto il mondo.
Quali progetti hai adesso?
Vorrei fare di nuovo una scultura da mettere in strada. Ho delle idee per Firenze, ma anche per Milano e Roma. Voglio continuare a lavorare in questo modo, libero, senza autorizzazioni, e di più nella scultura. Difficile e importante è trovare la sintonia: l’arte deve sapersi integrare al luogo che la riceve.
Il 19 gennaio hai collocato la scultura dell’“Omino comune” su uno sperone esterno di Ponte alle Grazie (rimosso il 27 dall’Amministrazione e poi ritrovato in un deposito comunale). In quello stesso periodo, Firenze accoglieva il famoso “Teschio” di Damien Hirst in Palazzo Vecchio. Si tratta di una coincidenza voluta?
Sì, è stato nello stesso periodo ma è una cosa che avrei fatto comunque. Diciamo che il momento è stato favorevole per evidenziare come la mostra di Damien Hirst fosse esattamente l’opposto di quello che faccio io. Una mostra elitaria che non ha interessato i fiorentini, giustamente; inoltre, vista e rivista, perché esiste da tanti anni questo teschio di diamanti. L’Assessorato alla Cultura tende ad imporre una certa arte e dare quasi lezione alla gente. È come se dicesse ai fiorentini cosa devono imparare dall’arte contemporanea. Il mio lavoro è una risposta contraria: è un’arte che parte dalla strada, che cerca di parlare innanzitutto alla gente. Per la mia scultura, c’è stata una petizione da parte dei cittadini che hanno chiesto di rimetterla. Quando il teschio di Hirst è andato via, invece, nessuno ne ha sentito la mancanza. Credo.
E cosa pensi di quella parte dell’arte contemporanea, elitaria, fiera di star chiusa nelle gallerie, quasi ostinata a non farsi capire?
L’arte contemporanea che non vuole farsi capire, può rimanere così, contenta lei. Rimanga pure nel suo salotto. Io penso che il pubblico non debba niente all’opera. Che si tratti di teatro, cinema o pittura, è l’attore o artista che deve cercare di convincere il pubblico. Quando si va a vedere una mostra non si deve fare nessuno sforzo. Andare in un posto per vedere delle opere, è già uno sforzo. L’autore deve quindi offrire qualcosa, ha l’obbligo etico di farlo. L’arte che si rinchiude in un mondo elitario, come sta facendo l’Assessorato alla Cultura di Firenze, è un’arte che serve soltanto agli addetti. E alla fine non so neanche quanto possa essere utile a loro.
Tante persone ti supportano, on e off line. La tua pagina facebook lo dimostra, hai più di 6mila fan al momento. Molti apprezzano quello che fai.
Sì e mi fa molto piacere. Alcuni apprezzano anche troppo, forse. Sono tornato ieri da Parigi e ho visto che soltanto nel quartiere di San Niccolò hanno rubato quattro cartelli. Rubano continuamente i cartelli con i miei adesivi e se li mettono in casa. Non voglio certo fare il moralista, questo tipo di furto è anche divertente. Nei paesi poveri vanno in massa a rubare nei supermercati perché hanno fame, qui vanno in massa a rubare un po’ d’arte contemporanea perché manca. Non c’è. Hanno fame d’arte, ecco cosa vuol dire. È un peccato però, perché un’opera in realtà pubblica, che era per tutti, non lo è più.
Dove trovi i cartelli stradali su cui lavori e che poi vendi?
Finora era la SAS (Servizi Alla Strada) che mi dava i cartelli dismessi, rovinati o vecchi, permettendomi così di venderli ad un prezzo molto popolare (come voglio che rimanga). Ma da fine luglio ha smesso. Pare che non vogliano più farmi questo favore e che preferiscano buttarli via. Prima andavo lì a recuperarli, li selezionavo, portavo in studio, ci lavoravo e li vendevo. Adesso non più e non so perchè. Non si sono spiegati. In questi giorni andrò a parlarci e spero di chiarire.
Qual è l’adesivo, e quindi il cartello, che ti sta più a cuore?
Il Cristo (sulla croce rievocata dalla forma a T della strada senza uscita), che poi è stato il primo della serie. È quello che ha un contenuto più spirituale, profondo, e forse anche più forte. Però ha più successo l’omino che si libera dalla barriera del divieto di accesso. Intanto perché è il più frequente: per strada ne siamo bombardati, se si gira in auto è il cartello che vediamo più spesso. Quello religioso, inoltre, può toccare certe sensibilità e addirittura offendere; non sempre viene compreso nella sua semplicità. Invece il divieto di accesso riguarda tutti, l’idea della ribellione, dell’uomo che vorrebbe liberarsi dai divieti, funziona bene perchè è un tema universale, semplice e vero.
Ma quali barriere hai in mente, da cosa dovremmo liberarci?
Innanzitutto dalle proprie barriere. Dai nostri limiti e tabù, gli abbiamo tutti. Dobbiamo imparare ad essere trasparenti almeno di fronte a noi stessi. E poi dalle barriere che ci vengono imposte. Siamo continuamente mossi da ordini, dobbiamo fare o non fare così. In realtà non dovremmo ubbidire a nessuno. Alla fine, penso, siamo nella maggior parte responsabili e consapevoli. Dobbiamo avere il coraggio di agire secondo la nostra coscienza.
Ci spieghi il significato del Cristo sulla strada senza uscita?
È piuttosto controverso. Viene inteso come critica nei confronti della religione e invece non lo è. È una provocazione perché lega la religione al concetto di strada senza uscita. In realtà parla piuttosto del principio della religione, basato sul sogno dell’Aldilà. Le religioni esistono perché l’uomo ha paura della morte, sono la risposta a questa paura. Ci offrono una vita dopo la morte per darci il coraggio di sopportare l’idea della nostra fine. Ma non siamo in grado di dimostrarlo. Come non possiamo dimostrare il contrario, che dopo non ci sia più niente. Rimane il mistero. È il principio di tutte le religioni, tutte ci offrono un Aldilà. E l’Aldilà è la strada senza uscita. Ecco cosa rappresenta il mio Cristo. È una provocazione.
Posso chiederti se credi in Dio?
Credo nella spiritualità. Ed è una cosa talmente grande, che mi pare assurdo volerla limitare al concetto di religione. Di sicuro non credo in un Dio preconfezionato, che è l’esatto contrario dell’idea di spiritualità. La spiritualità è uno stadio di ricerca, di abisso mentale senza fine. Racchiuderla in una storia non ha senso. È una contraddizione grave. La religione ha paura di approfondire, accetta troppi preconcetti e rifiuta in qualche modo l’origine della spiritualità.
Vuoi spiegarci altri cartelli?
Beh… viene quasi da contraddirmi. Mi guardo attorno, nel mio studio, e vedo lì un angelo, là un diavolo. Adesso sto disegnando un altro angelo, questo cade dal cielo… Ho appena smontato la religione però poi mi accorgo che ne parlo di continuo. Perché è il nostro bagaglio culturale, la nostra Storia. Siamo completamente intrisi dai racconti della religione cattolica e va bene così. Ci sono dei racconti bellissimi, la parola di Cristo è geniale. Se la riprendiamo oggi funziona sempre, funziona molto meglio di tante leggi. Forse mi contraddico, ma è la verità, ne sono comunque attratto: i temi della religione cattolica mi affascinano e riconosco che sono sempre validi.
Prossimo adesivo/cartello?
L’angelo che cade al posto del punto esclamativo del cartello “Attenzione!”. Questo tema rievoca il mito di Icaro: l’uomo che vuole andare troppo in alto, avvicinarsi al sole, e che poi si brucia – qualche volta mi chiedo se non gli assomiglio. L’angelo che cade è la contraddizione e vulnerabilità della vita. Un giorno voli in alto, quello dopo puoi essere a terra. Da puro puoi diventare impuro, e viceversa.
Come funziona? Pensi prima al cartello o al disegno?
Funziona che i cartelli sono ovunque e sono sempre delle provocazioni per me. Giro in città e mi richiamano continuamente. Vedo e rivedo un cartello e cerco l’idea. A volte devo sforzarmi, altre no, arriva all’improvviso e tac!
In un video spieghi il pensiero al centro della tua opera Bisou (Bacio): un’interpretazione ironica e lussuriosa del wc. Dici che in ogni momento delle nostre giornate dovremmo goderci la vita. Tu come te la godi?
Non posso entrare nei particolari… Cerco di godermela il più possibile nel rispetto degli altri. Mangiare, bere, amare. Non mi pongo dei limiti materiali: non mi interssa il denaro, mi serve giusto quello per andare avanti. Ho tre figli, anche se uno come me non dovrebbe averne mezzo, secondo la logica medio-borghese: prima si deve avere un lavoro, la macchina, la casa, e poi la famiglia. No, a me non interessa, le cose belle e umane della vita vengono prima di tutto. E poi ci si arrangia.
Riesci a vivere bene facendo questo mestiere?
Cerco di guadagnare quello che mi serve per vivere. Potrei fare il commerciante e guadagnare di più: volendo, con questa storia dei cartelli, potrei fare del business. Ma a me piace stare bene. Mi piace anche il lusso ovviamente, però il vero lusso è la libertà di agire. Non voglio guadagnare soldi per andare un mese in vacanza, voglio stare bene nel quotidiano e fare tutti i giorni ciò che amo fare, la mia arte. Insomma… no, non sono ricco.
Qual è il futuro della street art?
La street art non finirà mai, finchè ci saranno delle strade ci sarà l’arte di strada. L’importante è saper uscire anche lì dai canoni. Se la street art vuol sopravvivere deve essere libera; deve imparare ad innovarsi. Una street art che ha futuro è una street art che si re-inventa, che non è legata nè ai graffiti nè ad altro. Il mio lavoro ha senso finchè non sarà accettato del tutto. È una protesta. L’arte deve avere un senso, l’arte che parla solo di estetica è priva d’animo; deve riferirsi alla realtà, alla vita attuale, e deve essere una protesta. Dal momento in cui questa protesta è accettata, perde il suo valore e ragione di esistere; deve diventare qualcos’altro. Voglio dire che fino a quando mi si ostacolerà, si rimuovono i miei adesivi etc., il mio lavoro avrà futuro. Dal momento in cui i cartelli saranno accettati così, avrò finito con questi adesivi, e dovrò inventarmi una nuova protesta.
Cos’è l’arte per te, Clet?
L’arte è una provocazione, una protesta. Un modo per conoscere nuovi pensieri e relazioni diverse da quelle già universalmente accettate; per spostare i confini delle regole in modo responsabile e cercare la libertà.
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Lo studio di Clet è aperto al pubblico in Via dell’Olmo, 8 (Firenze)
Nella città in cui è stato definito “imbrattatore” e multato dalla Polizia Municipale, esiste un festival che insieme a tanti cittadini apprezza l’arte di Clet e s’interessa anche alla street art. PUF! 2011 – Pistoia Underground Festival inaugura il 24 Settembre “VIETATO”: la mostra personale di CLET ABRAHAM presso Lo Spazio di Via dell’Ospizio n.26 aperta sino al 21 Ottobre (ingresso libero). Altro motivo per cui noi di CCT saremo al festival!
Fino al 9 ottobre, Clet Abraham espone anche un’opera (in cui l’omino del divieto di accesso inizia a fare i primi passi verso la libertà!) per il Padiglione Toscana della 54ª Esposizione d’Arte della Biennale di Venezia, presso la splendida Villa Bardini (Costa San Giorgio, 2 – Firenze). È però tra gli artisti “fuori catalogo”. D’altronde, un artista “underground” è pur sempre un artista – almeno un po’ – al di fuori dell’istituzionalità. E a noi Clet piace tanto proprio per la sua CREATIVITÀ LIBERA.
Qui sotto la lettera con la quale l’artista risponde alla Polizia Municipale di Pistoia.
ARGOMENTI PER UN RICORSO di Clet
È dimostrato che la maggiore parte degli incidenti stradali in città siano dovuti ad una mancata lettura della segnaletica, che si passi col rosso, si “bruci” uno stop o si vada contromano. Il problema è dovuto ad una tendenza alla distrazione. Eppure i cartelli stradali ci sono eccome, più di così non si può. Il che dimostrerebbe due cose fondamentali.
La prima: il problema a questo punto non è più del cartello ma dell’attenzione che l’utente gli dedica; evidentemente, puntare sulla quantità e l’uniformità può soltanto peggiorare la situazione perché causa maggior disinteresse e rifiuto. In questo caso il mio lavoro, studiato per evidenziare il significato stesso del cartello, ha indubbiamente come primo merito quello di risvegliare l’attenzione!
La seconda: considerato che abbiamo ormai raggiunto l’apice con l’imbrattare il patrimonio visivo comune, a forza di cartelli stradali, forse è arrivato il momento di investire in un altro modo per affrontare la problematica della sicurezza stradale.Mi guardo intorno e vedo una profusione inverosimile di cartellonistica, elemento pittorico di un’estetica spesso fuori luogo (si pensi all’impatto visivo in un centro storico rinascimentale o in una pittoresca strada di campagna) e aggressiva quanto povera di contenuto: Vai di là! Vai di qua! Fermati! Avanti! Non nego l’utilità di una parte della segnaletica. So però che la vera sicurezza non dipende certo da un cartello, ma dalla prudenza e responsabilità di ciascuno. E invece molti cartelli stradali vengono spesso collocati non tanto perché indispensabili di per sé, ma piuttosto per pararsi da eventuali rimproveri legali. Chiamerei questo modo di fare la “cultura della de-responsabilità”. Il cartello è diventato il simbolo visivo di questa cultura, tutt’altro che educativa, umiliante per la maggioranza. Perciò, in qualità di artista (e di padre) sento il dovere di intervenire utilizzando le mie capacità per dare alla collettività una proposta di riflessione, una provocazione educata, che ovviamente non pretende di risolvere di per sé tutte le problematiche del caso ma semplicemente di alleviare la sua pesantezza in modo costruttivo e ironico, puntando il dito sui suoi limiti. Possiamo trovare altre soluzioni più efficaci e migliorare sia l’estetica che il contenuto del messaggio. Semplicemente perché l’uomo si merita un po’ più di dignità, non siamo infatti degli animali!
Il fatto che la Municipale non sia in grado di vedere la differenza tra una qualsiasi pennellata su un muro e la mia arte, dando prova di incompetenza in materia, è ben poco nobilitante per l’intera cittadina. E mi sembra ancora più grave questa tendenza a voler fare dimostrazione di forza a tutti i costi, mostrando così la propria debolezza e rischiando di inasprire il rapporto autorità-popolazione. Il mio intervento sui cartelli stradali è una proposta di dialogo come lo mostra la mia attitudine a dichiararmi; nel rifiutare questo dialogo con una cieca repressione, si rischia di dare la brutta impressione di voler utilizzare le leggi per affermare il proprio potere invece di sfruttarle per il bene della collettività, come dovrebbe invece essere.
L’ordine assoluto e il caos sono le due facce di una stessa medaglia, l’uno genera l’altro. Io, con il mio lavoro, mi sono impegnato invece nella ricerca di un compromesso. Compromesso che, un giorno, vorrei poter chiamare armonia.
Clet Abraham