Appennino senza confini: la storia di Gian Luca Diamanti sull’ultima pastora dei Monti Martani (Umbria). Partecipa anche tu a questa narrazione collettiva su cultura e territorio della spina dorsale d’Italia!
Un progetto di CCT in collaborazione con il Corso di Studio PROGESA (Progettazione e Gestione degli Ecosistemi agro-territoriali, forestali e del paesaggio) dell’Università di Bologna insieme alla Scuola AL.FO.N.S.A. (ALta FOrmazione e innovazioNe per lo Sviluppo sostenibile dell’Appennino) promossa da UNIAPPENNINO (Università per l’Appennino) e ad ANA (Accademia Nazionale di Agricoltura).
TERNI Stamattina dalla pecorara di Cesi, sotto i Monti Martani, le montagne dove hanno preso più polvere i miei piedi e più spirito la mia anima, ho visto una carrozzina con una bimba di pochi mesi. La nonna, che ha da fare con le pecore poco più in là, l’ha lasciata sull’aia, da sola, cullata dalla brezza di marzo, con gli occhi azzurri spalancati sulla vita, sotto il cielo, sul verde dei lecci e il bianco/grigio calcareo della penna di San Giovanni. Il nasino mobile ad annusare la puzza profumata dello stallatico dal recinto con le pecore e gli agnelli.
Nella casa della pecorara non stupisce il disordine di chi ha troppo lavoro da fare, ma l’essenzialità caotica. Gli olivi, le galline, la vecchia cucina, il focolare, il laboratorio. La carne degli agnelli macellati accanto a quelli appena venuti al mondo, il latte trasformato in formaggio da poche ore, il primosale, candore e tonda perfezione, risultato finale della vitale confusione/caciara. Il sapore del formaggio forte, aspro, acido, e poi delicato, avvolgente e persistente, d’erba, di caglio e di nutrimento, di sincerità e di libertà. Gli odori che ti saltano addosso e ti entrano nel naso e nella testa. Il fontanile e la strada sassosa, il sentiero fino alla piccola chiesa di San Giovanni di Piedimonte dove per trecent’anni – e quanti altri prima chissà – si sono sposati e sono stati battezzati miei avi, tra il monte e la valle, sotto i volti dei santi e lo sguardo materno della Vergine fuori dal tempo, con le rocce e un castello a far da campanile lassù in alto.
Nell’ombra della grande lecceta, sul camminamento in salita verso la rocca, ci saranno passati lupi e pecore, soldati e banditi; ci sono cinghiali e pettirossi, il fiato pesante, le gambe riottose, la testa ripulita. Posto ideale per il Marte italico, signore delle greggi prima ancora che della guerra, per Faunus e per Diana Nemorense. Sono ancora tutti qui, questi nostri santi e tanti dei, in questo bosco, o nella caciara di Manuela, tra i suoi agnellini vivi e in quelli sacrificati, tra la vita e la morte, negli occhi azzurri della bambina, e nei belati. Sono qui, tra la sanità delle prime cose, come intuiva Dino Campana, il poeta matto di Marradi, ascoltando l’acqua e il vento sulle montagne della Verna.
Eccole, le prime cose: la loro sanità e l’essenza non sfuggivano ai nostri progenitori, che perciò le ponevano in alto nel pantheon domestico, trasfigurazione di forze e archetipi divini.
Sarà questo il segreto che abbiamo dimenticato, concentrandoci sulle cose seconde e secondarie?Bisognerebbe chiederlo a quella bimba dagli occhi azzurri e con l’odore delle pecore nel naso. Perché lei la risposta oggi la sa già, prima che prenda in mano uno smartphone.
[…]
Strappa da te la vanità, non fu l’uomo
A creare il coraggio, o l’ordine, o la grazia,
Strappa da te la vanità, ti dico strappala
Impara dal mondo verde quale sia il tuo luogo
[…]
E. Pound, Canti Pisani
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