Punti di Vista

Stories by the “Creative Curious Travellers 2017” about the city of Pistoia. Thanks to: Giorgio Tesi Group | Discover Pistoia | NATURART | La Sala | FAI Giovani – Pistoia | BrickScape.it | Brandini – Pistoia | Comune di Pistoia | Pistoia Italian Capital of Culture 2017.


PISTOIA Nella casa tropicale delle farfalle, nei giardini di Villa Garzoni, c’è un piranha. Resto in piedi a fissare per qualche istante questo pesce dal volto impassibile, le squame di un giallo rossastro scintillante e gli occhi enormi. Non credo di aver mai visto prima un piranha da così vicino. Rapidamente, e con un po’ di trepidazione, tocco il vetro dell’acquario, il vetro che ci separa, il vetro che sembra attaccarsi al calore della mia mano e al sudore del palmo. Dall’altra parte c’è un pesce, fisso, immobile. Un piranha. Ci scambiamo sguardi come fossero parole durante un breve tossico incontro tra due persone che si odiano. Posso ucciderti, dice il piranha, ancora immobile. Tu sei niente. Potrei masticare le viscere di quel tuo corpo sudato in pochi secondi. Ti ricordi quando hai preso in giro i miei minuscoli denti? Questi denti possono spellarti viva. Ti senti comoda e sicura dall’altro lato, vero? Perché non spacchi il vetro?

Rimuovo la mano, come se avessi avvertito una scossa elettrica, e non ho parole. Non ho alcuna risposta a quei tentativi di scherno. Resto solo in piedi con lo sguardo fisso. E proprio appena penso di aver qualcosa di intelligente da dire, il piranha mi abbandona e si sposta ad un altro angolo dell’acquario. Mi sento persa. Mi accorgo adesso che ci sono farfalle intorno a me. Incredibilmente belle e graziose, di varie dimensioni e colori, volano dentro e fuori dai rami degli alberi tropicali; alcune sono ancora sedute con le ali incollate, altre raggruppate, tutte in fila, mentre succhiano una fetta di frutta lasciata dal loro gentile custode in questo finto paradiso tropicale. La vista delle farfalle allevia il dolore, leggermente – il dolore che ho sopportato durante il mio incontro con il piranha, un dolore forte come un taglio profondo sulla pelle. Per un attimo, immagino che la mia mano stia sanguinando e che, dopo un’ispezione più vicina, possa vedere piccoli segni di denti. Decido di ammirare le farfalle, è molto più sicuro. E uscendo, evito di guardare nuovamente l’acquario – ma so che il piranha sta facendo un sorrisetto.

Alla fermata dell’autobus continuo a guardare l’orologio, spero che arrivi un bus e presto. Mi è stato detto che gli autobus nella campagna italiana non sono così regolari. E molto spesso nessuno sa veramente quando arriverà il prossimo. Se non puoi guidare su questo lato della strada, prova a prendere il bus, mi hanno detto, scherzando per metà. Potresti andare a Collodi – e tornare – in un giorno. Circa dodici minuti dopo sono sollevata nel vedere un autobus che si avvicina e grata che si fermi. Salto sopra alle 15:50 e cerco di spiegare al conducente, nel mio italiano stentato, che non ho un biglietto. Che non c’erano negozi aperti, che ho chiesto ovunque e nessuno sapeva dove si vendessero i biglietti. Nella mia borsa ho un piccolo souvenir, un Pinocchio-portachiavi, merce ufficiale del Parco di Pinocchio appena visitato. Voglio rassicurare l’autista che non sono una bugiarda, che la storia è veramente accaduta così come ho raccontato. Ho incontrato un piranha, ho detto quasi d’impulso, e come se avesse letto i miei pensieri lui spalanca le sopracciglia – è un tic nervoso o un gesto di incredulità? – Non ne sono sicura, sono ancora un novizia nell’arte dei gesti italiani. In ogni caso proseguo e, insieme alle poche parole che capisco di quello che mi dice, mi rendo conto che dovrò comprare un biglietto quando torneremo alla stazione ferroviaria di Pescia.

Una volta seduta, chiudo gli occhi e cerco di mettere tutto dentro. Di ricordare le cose che le persone mi hanno detto e iniziare a prendere note mentali. La mia mente torna a Pistoia e agli ultimi due giorni: ho due gatti, ha detto la donna italiana. Uno è cieco, l’altro è la guida. Sono sempre insieme. Poi mi ricordo che nei pressi di Piazza San Francesco si era accesa una discussione tra un gruppo di uomini. Uno sottile e sconcertato che sembrava non dormire o mangiare da giorni e altri due che sembravano rimproverarlo per qualcosa che aveva fatto – o non fatto – ma vai, ma vai, but go, but go, ho mentalmente tradotto. Ma vai, perché non ci stai dicendo cosa vogliamo sentire.

Sto vivendo, su un autobus di ritorno a Pescia, la storia di Pinocchio, il gatto, la volpe, i bugiardi, i capi, il capo, il fuorviante, la voglia di Pinocchio per la libertà e il tut-tut-tut della fata dai capelli turchini. Ti ho detto così, ti abbiamo detto così, ma vai, ma vai… Pagherai per la buona vita che stai conducendo. Pagherai per tutto questo, piccolo Pinocchio. E quando afferrerai il tonno che ti porta alla riva, penserai al piranha di Villa Garzoni e diventerai un vero ragazzo.


Durante le mie numerose passeggiate per le strette vie di Pistoia, nel caldo torbido di luglio, muoio dalla voglia di un drink. Qualcosa di freddo in un bicchiere alto, con ghiaccio. Limonata, chiedo al bar. Mi offrono Lemon Schweppes. Escono le bollicine dalla lattina e penso a personaggi, luoghi, aneddoti. Una giovane coppia italiana mi ha raccontato questa storia: hanno visitato San Pietroburgo lo scorso maggio, in un gruppo di dodici persone. Dovevano cenare al ristorante dell’hotel ogni sera, e nessuno di loro avrebbe mai toccato il cibo sul tavolo. Nella mia mente avevo l’immagine di dodici italiani che fissavano piatti pieni di pane, patate, cavoli, incapaci di avvicinare le braccia verso queste pietanze, di servirsi sul piatto, di alzare le braccia, di avvicinare la forchetta alla bocca e mangiare. L’intero processo di alimentazione era paralizzato da questo gruppo di dodici italiani che si rifiutavano di mangiare cibo non conforme ai loro standard, dodici italiani le cui bocche sbavavano al pensiero di pasta con salsa fatta in casa e vino rosso. Tutto tranne questo. Probabilmente anche loro morivano dalla voglia di rotolare nelle colline toscane, magari considerate prima scontate e invece ora desiderate intensamente. Il giovane che mi ha raccontato questa storia era di Napoli. Parlava italiano con quel lento farfuglio del sud, come il Padrino, ricordandomi i film in cui il Padrino impartisce saggezza infinita ai suoi figli, nipoti, parenti, sotto voce.

Sul bus verso Pescia, vengo rivisitata anche dall’immagine di Pasquale, il barman in Piazza della Sala, in maglietta blu e cappello di paglia, che mi ha spiegato che le due qualità che rendono italiani gli Italiani sono che sentono le cose con passione e che sono furbi. Non sono sicura di cosa significhi “furbi”, e lui non riesce a spiegarmelo in inglese. E l’unico modo per esprimere le emozioni è cantare, dice. E insiste: devi provare i panini preparati da mia nonna. Sono semplicemente i migliori. E poi nel processo della conversazione, cercando di spiegare i suoi pensieri sulla religione, mi dice qualcosa apparentemente fuori luogo, ma incredibilmente saggio: “Immagina un pesce in un acquario nel salotto di qualcuno, in un acquario posizionato in un modo tale per cui il pesce vede costantemente la porta della cucina”. Per tutta la sua vita, quel pesce vedrà quella porta della cucina nello stesso posto, ogni giorno aprirsi e chiudersi ma comunque immobile, una porta che non si muoverà mai, la fine del punto di vista del pesce. Mi ricordo, con un brivido, del piranha.


In una galleria d’arte cerchiamo di vedere cose che sono state espresse dal punto di vista dell’artista. Tuttavia, non è sempre possibile. A volte è impossibile. Al Museo Marino Marini di Pistoia ci sono cavalli e cavalieri, e donne che rappresentano Madre Terra. Lui ha semplificato il cavallo così tanto da renderli non più riconoscibili. I cavalieri, gli acrobati, le donne. Ricordo l’odore dei limoni in quel museo e un gruppo di bambini handicappati che rumorosamente stavano partecipando ad un laboratorio d’arte dove dovevano riprodurre una mostra di Marini, a loro modo. Il loro proprio punto di vista. Nel “Prospetto” (1944), c’è un nudo curvo visto da dietro, un petto appeso, un capezzolo visibile come una ciliegia. Visto da un certo angolo, chissà cos’altro il nudo ha da offrire. La vita è così lunga quando si guarda l’arte.

Nel giardino del museo ci sono gruppi di italiani che parlano ad alta voce ad entrambi i miei lati – a sinistra un gruppo di ragazze, a destra un gruppo di donne più anziane nascoste dietro un cespuglio. Non sono sicura che siano più vecchie perché non le vedo, ma si può sempre dire se una voce è più vecchia – anche a telefono si può dire se una voce è più vecchia. Anche quando non puoi vedere la persona, hai qualche idea della sua età. Davanti ai miei piedi c’è una pianta dal rosso brillante che ricorda il geranio ma non si tratta di un geranio. “Hydrangea Paniculata Grandiflora”, dice il cartellino. I gerani erano accessori molto popolari quando ero giovane. Le mie amiche ed io leccavamo i petali per farli attaccare sulle nostre unghie, permettendoci così di entrare nel mondo glamour della donna adulta dove tutte le donne sembravano belle e avevano unghie lunghe, lunghe e colorate con smalto rosa luccicante, rosso luccicante. Non avevamo idea allora che stavamo forse diventando acrobati, giovani ragazze vestite come luride donne con calze colorate, che camminano di notte per le strade di Pistoia, ragazze che fanno il loro ingresso nella notte.

Ora, seduta all’ombra dell’albero con enormi radici, di fronte alle pareti ocra, alle finestre e agli archi del museo Marini, penso ad una foto che sicuramente ricorderò per il resto della mia vita. È la fotografia dell’artista e della moglie in un villaggio di montagna, sorridono con i piedi che affondano nella neve. Mercedes, alias Marina, sua partner nella vita, nell’arte, nel crimine, indossa un enorme cappotto di pelliccia. Sono anche stregata da una registrazione della sua voce nel museo. La voce di una vecchia ha le sue crepe e si blocca, come una porta le cui cerniere necessitano d’olio. Marina Marini esce dalla fotografia e cammina verso il giardino per prendere con noi un caffè. Come va? chiede, un po’ senza fiato. Ti è piaciuto il lavoro di mio marito? Questo era il nostro giardino… ti piace? Ben nascosto in questa terra, questo giardino, qui c’è la figura di madre terra, con le sue gambe aperte, l’abbiamo seppellita qui con mio marito. Lei dice entrami, entrami, come se tu entrassi nella vita. Qui sei stato concepito, e qui morirai.


Un giovane si unisce al gruppo di ragazze. Stringe le mani e le bacia tutte. Quando si siede, offre loro sigarette. Alcune rifiutano, altre accettano, e le ragazze continuano a parlare. Un giovane uomo e il suo harem, e io non ho idea di cosa stiano parlando. Potrebbero trovarsi in un bagno turco invisibile agli altri. Sono completamente nudi, le ragazze ridono, il giovane tocca i loro colli, le braccia, i seni, le cosce. Sono italiani e vivono con passione. Per arrivare al bagno turco sono passati dal sentiero che inizia con il paradiso, conduce al purgatorio e finisce all’inferno. Sorrido mentre ricordo le esatte istruzioni che l’addetto alla reception mi ha dato, qualche giorno prima, alla Grotta Giusti di Monsummano Terme. “Cinque minuti in paradiso, signora. Poi cinque minuti in purgatorio, e infine quaranta minuti all’inferno. Si prega di assicurarsi di tornare entro cinquanta minuti.” Duecento metri sotto terra, nella grotta miracolosa, con rivoli di sudore che corrono sul mio corpo, mi sentivo come se mi fossi svuotata di tutto ciò che prima mi pesava. Eppure, a occhio nudo, soffrivo. Il piranha stava ridendo. Io stavo arrostendo all’inferno.

Punti di Vista - Nora Nadjarian

Butterfly House, Collodi – Pistoia | photo: Federica Santini

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