L’arrogante illusione di imporre il cambiamento culturale dall’alto

Elena Mazzoni Wagner

ITALIA Basterebbe aprire gli occhi e spalancare un pochino le menti per accorgersi delle molteplici realtà appassionate, indipendenti e meritevoli, che già esistono e che invece di firmare protocolli, presentare mozioni e redigere position paper, creano azioni e collaborazioni, piccole o grandi reti sociali che promuovono il bene comune della cultura e la cultura del bene comune, in Italia, in Europa, nel Mondo. Oggi, grazie al web, è possibile conoscerle ed entrarci in contatto persino rimanendo seduti in poltrona. Ma le istituzioni culturali italiane preferiscono ignorarle, preferiscono pensare di costruire qualcosa da zero e dall’alto, per poi rimanere fermi a slogan politici e campagne di marketing (dette “di sensibilizzazione”), quando invece basterebbe guardarsi attorno, magari osservando con più attenzione verso il basso, e saper cogliere le opportunità offerte dai cittadini; basterebbe scendere ogni tanto dai piani alti delle istituzioni – (la cui autorità, data sempre per scontata, non rappresenta sempre un valore per la società); basterebbe uscire più spesso dalle sale-complimenti (dette “sale-conferenze”) ed ascoltare la città. Potrebbe essere persino facile per le istituzioni valorizzare, conservare e rinnovare i beni culturali, materiali e immateriali, se solo avessero la minima intenzione e l’umiltà (primo segno di saggezza) di condividere questo loro compito – secondo un criterio intelligente, responsabile e meritocratico! – con la società civile, con le realtà già esistenti sul territorio “g-locale” e produttive, con progetti di qualità e sostenibili, utili al benessere e alla felicità della comunità presente e futura, in modo lungimirante e non solo strategico per soddisfare la legislatura comunale o nazionale di turno.

Le istituzioni pubbliche dovrebbero esistere per questo, dovrebbero svolgere il compito di cercare e trovare e sostenere le iniziative che nascono dal basso creando innovazione sociale e culturale. Ma qui, in Italia, accade persino il contrario: quando queste realtà innovative si propongono alle istituzioni, trovano un interlocutore cieco e sordo e analfabeta. Sì, la maggior parte delle nostre istituzioni si dimostra analfabeta davanti ai linguaggi della società contemporanea, ai nuovi media e modi di comunicare, raccontare, scambiarsi saperi e conoscenze, condividere esperienze, creare-innovare-immaginare. E poiché l’educazione è solo una perdita di tempo, l’Assessorato alla Cultura di un Comune “normale” non risponde nemmeno alla terza email, nemmeno con un “No, grazie ma non ci interessa”. Le istituzioni sono troppo occupate a rispondere a messaggi e telefonate di “amici”. È la banale logica del potere: tenere lontano tutto ciò che è diverso, che non si conosce e che quindi non si è sicuri di saper controllare.

Ma fuori dalle aule istituzionali, governative e accademiche, dove tra colleghi si raccontano come imporre un cambiamento culturale dall’alto scambiandosi complimenti e ringraziamenti, la vita della società scorre comunque e la cultura cambia comunque. Anche in tempi di crisi. Anzi, soprattutto in tempi di crisi. La società è senza dubbio più flessibile e aperta al cambiamento, più creativa e innovativa delle istituzioni che la governano, bloccate da logiche di potere e lente, inutili strutture e sovrastrutture burocratiche. Se le istituzioni culturali rispettassero la loro ragion d’essere e quindi la loro missione, invece di “mettere al centro dei vari dibattiti” la società (e in particolar modo quella più giovane perché pensano che dire “i giovani” renda qualsiasi discorso più popolare), inviterebbero gli attori sociali a raccontarsi, si confronterebbero con loro, coinvolgerebbero la comunità a riflettere sui processi della cultura in modo teorico e pratico, insieme. Ma confrontarsi tra simili è molto più semplice e tanto meno faticoso quanto meno utile al famoso “bene comune” di cui però è fondamentale riempirsi sempre la bocca.

Perché questo sfogo? Perché davanti alle ultime grandi iniziative promosse dalle intoccabili istituzioni culturali del Bel Paese, non so se ridere o piangere e allora scrivo. Su #DiCultHer, #MiBACTsocial & Co.


DiCultHer è la sigla della “Scuola a Rete in Digital Cultural Heritage, Arts and Humanities” che ad oggi aggrega oltre sessanta organizzazioni culturali italiane, atenei e istituzioni, enti di ricerca e imprese. Quanti di voi ne hanno già sentito parlare? Io l’ho scoperta in questi giorni, per caso. È nata nel 2015 “con l’obiettivo comune di far nascere un ‘campus diffuso’ in grado di attivare l’elaborazione di un’offerta formativa coordinata con il sistema nazionale per costruire il complesso delle competenze digitali.”

Questa la sua missione: “Durante la depressione degli Anni Trenta ai giovani si chiese di costruire con pala e piccone le autostrade e i ponti: le infrastrutture per lo sviluppo dell’economia del ventesimo secolo. Per superare la crisi attuale ai giovani si chiede di costruire contenuti digitali a disposizione di tutti: le infrastrutture per lo sviluppo dell’economia del ventunesimo secolo. Noi stiamo facendo nascere la scuola che li prepari a farlo.”

Falsa. Ridicola. Arrogante. Paradossale. Le nostre istituzioni non chiedono di costruire proprio un bel niente ai giovani e questo “nuovo network” di professori, presidenti e direttori e vari vice, ex o attuali o futuri sindaci, parlamentari, ministri e senatori, rappresenta fedelmente – e tristemente – la solita realtà sociale italiana: dove sarebbero i giovani? (e le donne?)

Poi, credete davvero che le nostre scuole e università, le accademie e i musei – allo stato attuale – siano in grado di insegnare a costruire contenuti digitali (per una narrazione dei beni culturali), alle generazioni cresciute a Web, Social Media ed App? Poveri illusi. Prima di tutto, è necessario rinnovare le istituzioni culturali dall’interno e con l’esterno, insieme alla cittadinanza sovrana. Ecco, iniziate a chiedere ai giovani competenti di aiutarvi in questo. No, attenzione. Non intendo nessuna forma di sfruttamento detta “volontariato” o “stage” o “retribuzione simbolica” o “esperienza lavorativa” o “collaborazione”. Sia chiaro. Si tratta di lavoro ed il lavoro si paga! Tanto per cominciare, per essere almeno un pochino coerenti con la vostra dichiarata missione, avreste potuto chiedere ai giovani di costruire il vostro sito web (che si commenta da solo) e dare un senso ai vostri social media con qualche contenuto digitale meno autoreferenziale e più interessante. Ma cosa più grave e assurda è la seguente.

La rete #DiCultHer (perché basta dire “rete” e avere un hashtag per sentirsi innovativi) è stata rilanciata di recente con l’apertura di uno spazio virtuale chiamato #diculthertoday (perché più hashtag abbiamo, più fighi siamo) e in teoria aperto alla discussione pubblica sui temi del digitale come patrimonio culturale e per il patrimonio culturale.” Questa consultazione online pubblica segue la mozione per una risoluzione dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa sulla salvaguardia e valorizzazione del patrimonio culturale immateriale europeo (presentata dal Senatore Paolo Corsini come primo firmatario), con l’obiettivo di raccogliere spunti utili alla redazione del position paper italiano, entro fine 2016. L’articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore e intitolato “Cultura come bene comune e come condivisione per un’Europa realmente aperta e inclusiva” di Piero Dominici (Professore di Sociologia dei processi culturali e comunicativi all’Università degli Studi di Perugia) fornisce un inquadramento generale dei temi da discutere.

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Il form della consultazione online pubblica #diculthertoday – http://diculther.today/

Peccato che dopo aver riempito il form con le vostre riflessioni e proposte, non possiate inviarlo. Manca proprio il pulsante “INVIA” o come si chiama. Vi giuro, l’ho cercato ovunque e non so dove cliccare. Non c’è. Infatti, gli unici testi visibili per adesso sono quelli caricati dalla “Redazione” e qualche commento. Quindi, mi chiedo: la recente conferenza a casa Treccani per lanciare questa importantissima consultazione online pubblica, a cosa è servita realmente? A scambiarvi alcuni bei concetti dentro le solite mura, facendo un po’ di pubblicità ai vostri nomi e alle istituzioni o imprese che rappresentate. Tanto poi, dite la verità, pensate questo: “a chi altro interessa la Cultura fuori dall’élite?” Per fortuna, qualche voce si è distinta dal coro con autocritiche e opinioni stimolanti sul sistema culturale “attuale” sinonimo di “antiquato” – (come quella di Emmanuele Curti, Archeologo e Professore all’Università della Basilicata, di cui più avanti cercherò di raccontare il pensiero sulla “Nuova Cittadinanza Culturale“, sui concetti di “abitante culturale” e “comunità allargata”, in relazione ad appassionanti riflessioni sul “Turismo Culturale 3.0”, anche in merito a Matera 2019 – Capitale Europea della Cultura, dove invece di “turisti” si parla di “cittadini temporanei” quindi consapevoli e co-responsabili della cultura locale)* – ma i più hanno espresso solo paroloni e banalità. Concetti scontati, normali per noi comuni cittadini ma che dentro quelle mura credono di essere rivoluzionari.

Ma chi sono io per criticare… non insegno e non governo. Meglio raccontarvi allora una storia che conosco, a proposito di “digitale come patrimonio culturale e per il patrimonio culturale”. Ed Europa.


Quando il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo* – (che potrebbe chiamarsi semplicemente Ministero dei Beni Culturali o del Bene Comune) – se ne frega dei Beni Culturali e del Bene Comune

* in un prossimo post – appena sarò riuscita a terminare alcune letture – proverò ad affrontare il tema del Turismo Culturale 3.0 e Creativo, partendo proprio dalle riflessioni di Emmanuele Curti.

Nel 2014 abbiamo raccontato come La Notte Europea dei Musei in Italia in realtà assomigliasse più ad una Cena (che finisce presto). Nel 2015, chiude il portale dedicato e ideato-costruito-redatto (per 5 anni, dal 2010) in modo indipendente-volontario-autofinanziato dall’agenzia Made Comunicazione di Piacenza. Chiude per mancanza di sponsor e per il troppo successo (troppo da continuare ad essere gestito con poche risorse). Chiude dopo cinque anni di servizio a TUTTI i Musei italiani e ai cittadini: a differenza del MiBACT, non escludeva nessuno e quindi nel loro sito web si potevano trovare anche i Musei più piccoli, civici e privati (spesso più entusiasti e aperti fino a mezzanotte). Insomma, non solo i grandi e pubblici (che spesso non si dimostrano nemmeno tanto “aperti” sia in senso metaforico che letterale). Così, da ormai due anni, per seguire e partecipare a questa iniziativa europea non ci resta che affidarci alla (non) comunicazione del Ministero dei Beni Culturali, tanto autorevole ed efficace da doversi comprare i “followers” su Twitter (@MiBACT) e chissà su quanti altri account. Ecco a cosa servono le tasse: a comprare i falsi profili social che “seguono” i nostri Ministeri oppure a pagare Agenzie “amiche” che fingono di lavorare. Ma perché non sostenere invece un’iniziativa indipendente e nata dal basso, che mette(va) in rete tutti i Musei del Bel Paese e che funziona(va) bene?!

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Alcuni “followers” del Ministero dei Beni Culturali su Twitter (@MiBACT)

No, se c’è qualcosa di buono in questo Paese va ignorato. E così i soldi dei cittadini vengono investiti sempre in qualcosa di meno buono, meno funzionante, meno utile, meno tutto ma magari più caro. Quanto costa un pacchetto con tutti quei “followers” (ad oggi 100.000 – quanti di questi siano “veri” non sappiamo) senza immagine profilo e codici invece di nomi? Oppure, quanto costa un’agenzia di comunicazione – magari gestita dall’amico che è socio del nipote della sorella del Ministro – che invece di lavorare (creando quei famosi contenuti digitali e interagendo con gli utenti reali) compra pacchetti di falsi profili social, ingannando Ministero e rubando ai cittadini? Non so quale sia la verità dietro questo triste account Twitter o di qualsiasi altro profilo social che rappresenta le nostre istituzioni, so solo che in Italia ci siamo abituati a vedere un mondo che funziona così. Ma il fatto che voglio evidenziare è un altro, ancora più grave e ancora più assurdo.

Invece di cogliere un’opportunità offerta dalla società civile, sostenere un progetto utile e di successo, già attivo e funzionante, valorizzando la partecipazione e ottimizzando la spesa, il Ministero dei Beni Culturali ha completamente ignorato (negando persino il semplice Patrocinio) la piattaforma dedicata alla “Notte Europea dei Musei in Italia” e ha scelto di continuare a gestire – poco e male – questo evento culturale europeo, ottenendo il risultato seguente:

Nel 2016, l’affluenza ai Musei di quella notte è stata una miseria in confronto allo “straordinario successo” raggiunto due anni prima. Prendiamo ad esempio Roma, la capitale: 210mila visitatori nel 2014! Due anni dopo: 58mila visitatori nel 2016(Fonte: Repubblica.it)

In due anni, l’iniziativa ha perso circa tre quarti del suo pubblico. Perché? Perché nel 2014 (r)esisteva ancora la piattaforma ideata e gestita in modo indipendente dall’Agenzia di comunicazione Made, in cui tutti i Musei grandi e piccoli, pubblici e privati, potevano segnalare la propria iniziativa. Stimolati da questa accessibile tecnologia ed attraente opportunità di autopromuoversi sul web, creando facilmente contenuti digitali per raccontarsi – grazie al sostegno di una piattaforma aggiornata e ben curata, che consentiva loro di raggiungere il potenziale pubblico prima virtuale e poi reale – i Musei avevano organizzato molti eventi speciali in occasione della loro Notte Europea e avviato una comunicazione efficace (quasi competitiva tra loro) che ha scatenato l’interesse dei media nazionali e soprattutto di tantissimi cittadini.

Dopo il successo raggiunto nel 2014, la piattaforma avrebbe avuto bisogno di ulteriori risorse per crescere in relazione alla domanda, continuare a soddisfare e migliorare il “servizio pubblico” evidentemente utile, richiesto e apprezzato. Con molto dispiacere per tutti, ha dovuto sospendere la propria attività (ecco perché dal 2015 il sito www.lanottedeimusei.it è offline) ma con la volontà di trovare una soluzione economica sostenibile duratura e quindi tornare (ci auguriamo presto) online: tornare ad essere uno strumento digitale utile sia ai beni culturali che ai cittadini, in sintesi, al bene comune.

Nel 2014, davanti alla Galleria dell’Accademia di Firenze, nonostante la mezz’ora di attesa, per la troppa folla, alla fine non ci fecero più entrare (altra questione sulla pigra e disorganizzata gestione pubblica dell’evento nazionale, affrontata qui). Quest’anno, 2016, il calo se non l’insuccesso dell’iniziativa europea a livello italiano era prevedibile già dalla poca e cattiva comunicazione da parte del MiBACT, confermata poi dalla mancanza di lunghe file davanti agli ingressi dei Musei e dalle sale semi vuote (in confronto alla stessa Notte del 2014). Infatti, quest’anno, dopo nemmeno 10 minuti di coda, siamo entrati.

“E certo chi vede questa, non dee curarsi di vedere altra opera di scultura fatta nei nostri tempi o negli altri da qualsivoglia artefice.” – Giorgio Vasari

Il #nudo piú virile e #sexy nel mondo dell’ #Arte – il #David di #Michelangelo – si trova alla Galleria dell’Accademia, #Firenze. No, non siete su @skyarte ma su @cctseecity! 😉 Un po’ di storia e alcune curiosità… qui: [www.cct-seecity.com/2014/05/il-david-di-michelangelo/]

Posted by CCT-SeeCity on Sunday, 29 May 2016


Credo che questa storia sia un esempio chiarissimo di cosa accade – o meglio, di cosa non accade – in Italia, tra istituzioni culturali e cittadinanza. Ma di quale “bene comune” blaterate? Invece di presentare mozioni e redigere documenti (che poi saranno letti da chi li scrive e forse da altri due colleghi detti “amici”), iniziate a FARE cambiamento. Aprite gli occhi, ascoltate le città. Aprite le vostre porte, ascoltate i cittadini. Rispondete alle email di chi non è vostro “amico” e non fa parte di nessuna élite ma ha comunque pensieri e progetti da poter condividere con le istituzioni culturali. Prima di raccontarci quanto sia necessario un cambiamento nei massimi sistemi educativi, iniziamo a cambiare il modo di vivere e condividere la cultura quotidiana a partire dalle pratiche più piccole e comuni, DAL BASSO, insieme.

La società civile percepisce la maggior parte delle istituzioni culturali italiane come lontane, separate, disconnesse dalla realtà. Nelle intoccabili istituzioni culturali del nostro Bel Paese, si percepisce solo assenza di volontà, assenza di condivisione, assenza di comunicazione, assenza di cambiamento. Assenza di passione che muove invece anima e corpo di una città, fuori dalle mura del potere.

Ed è per questo che davanti ad hashtag e slogan su innovazione e condivisione culturale, lanciati da altissime autorità che insegnano o governano, io cittadina italiana non so se ridere o piangere.


C’è anche da dire però che non è tutto così antiquato e immobile, come appare. Ad esempio, quest’anno 2016 la Galleria degli Uffizi è rimasta straordinariamente aperta a Ferragosto, inaugurando negli stessi giorni i suoi primi due canali social ufficiali: Twitter e InstagramPensate che questa è stata una “notizia”. Tv e giornali nazionali hanno ritenuto questo fatto, presentato da un comunicato stampa, una “notizia”. Mentre fuori c’è un mondo (senza uffici stampa) che veramente fa-crea-produce-condivide per valorizzare, promuovere e muovere cultura in questo Paese… ma che non esiste nemmeno per i media. Perché questi hanno bisogno di comunicati per fare copia-incolla e produrre non-contenuti (dato che i luoghi tutti uguali sono definiti non-luoghi, mi sembra un termine corretto). E poi perché vale sempre la regola degli “amici”: o si è del giro o non si esiste.

Ma quindi al Musée du Louvre, per l’apertura degli account social Facebook (ad oggi conta circa 2.380.000 fans) e Twitter (aperto nel settembre 2009, ad oggi conta circa 958.000 followers) ed Instagram (aperto nel dicembre 2012, ad oggi conta circa 744.000 followers) e Google+ (ad oggi conta circa 143.640 followers), avranno organizzato ogni volta una conferenza stampa internazionale?

Beh, perché le istituzioni culturali italiane non dovrebbero vantarsi di essere sempre al passo con i tempi? Avanti pure con i comunicati. Indietro con la comunicazione. Indietro con la condivisione. Indietro con il bene comune. Ma dicevamo… cosa dovrebbero insegnare queste ai giovani?


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Galleria dell’Accademia, Firenze – Notte Europea dei Musei 2016

Con tutta la rabbia e passione che ho.

Grazie per aver sopportato questo sfogo fino a qui. Di seguito puoi lasciare un commento, critiche, pensieri, riflessioni, proposte, storie, segnalazioni… o anche solo un saluto. Il tasto “INVIA” c’è! Grazie di cuore, Elena MW

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