Questa è la storia di Matko, fannullone a tempo pieno, che si fa raggirare dal boss gitano Dadan e, per ripianare il debito accumulato, combina il matrimonio fra suo figlio Zare e la sorella del boss che nessuno vuole sposare. L’intervento del capofamiglia Zarije e dell’amico fraterno Grga sarà provvidenziale.
Ma la trama non conta perché questa è soprattutto una storia di cinema nel vero senso della parola ossia uno spettacolo a tempo pieno che si svolge sulle rive del Danubio, in un luogo imprecisato ai confini con la Bulgaria, fra Limousine e Trabant scassate, denti d’oro, accessori leopardati, fisarmoniche, musica gitana, zingari felici, balere galleggianti, animali dappertutto.
È un circo di due ore che trascina irrimediabilmente in un luogo immaginario in cui le fiabe ancora esistono e anche la situazione più complicata si risolve. È un racconto di padri e figli, di amicizie indissolubili, di opposti che si attraggono. È la favola di Zare e Ida, di un sognatore e una donna con pochi fronzoli, è la fratellanza fra Grga e Zarije, sono le peripezie di Matko e Dadan, è l’amore fra un gigante e una coccinella.
Insomma “Gatto nero, gatto bianco” (1998) è un sogno ad occhi aperti, un gran casino come non si è mai visto, ma soprattutto è un viaggio infinito nello spettacolo del cinema ed è inutile tentare di spiegare l’indescrivibile quando l’unica cosa che conta è lasciarsi travolgere dalla potenza di questa favola di Emir Kusturica.