Tutti lo chiamano Haron

Andrea Nardini

SHÀNGHǍI Non conosco il suo vero nome. La nostra è un’amicizia nata quasi per caso. Il suo ristorante è a poche centinaia di metri da casa mia. Tutti lo chiamano Haron. 16 anni, una vita lontana da smartphone, videogiochi e divertimenti. Il piccolo cameriere, runner, lavapiatti, ha un sorriso che ti conquista. E parla 4 lingue: arabo, cinese, inglese, cantonese. Sono appena passate le 22:00. Il cielo si è fatto più scuro del solito. La primavera tarda ad arrivare. L’inverno non molla. In sella al mio nuovo motorino elettrico, taglio a metà la città. Shaanxi Nan Lu è diventata la mia stella polare, imboccarla è la miglior soluzione ogni volta che la mia bussola inizia a far cilecca. Sempre dritto, e non mi sbaglio mai.

Capita alle volte di gettare lo sguardo su dettagli mai visti prima, piccoli regali che questa pazza città ti concede 24 ore su 24: boutique di artisti cinesi, karaoke ambulanti, vintage store gestiti da anziani emigrati dal Sichuan, parrucchieri dove acconciarsi i capelli diventa davvero l’ultimo dei desideri di una giovane turista europea, costruzioni in pieno stile francese, segni di un’antica dominazione che non ha intenzione di mollare dinanzi alle megalomani idee di imprenditori senza scrupolo. E poi un ristorante. Famiglia musulmana. Con occhi da orientale. “Ehi man” – esordisce ogni volta il piccolo grande Haron – “ni hao ma?” – Il più semplice dei “come stai?”. Pantalone di acrilico, polo bianca e scarpe da ginnastica, tipiche di uno che ha sempre dovuto rincorrere la vita.

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Zhaojiabang Road, dove Haron lavora, potrebbe tranquillamente prendere il posto della nostra Firenze-Bologna, con un eloquente numero inferiore di lavori in corso e molte ma molte meno curve e tornanti. A nessuno qua interessa se il nostro sedicenne lavori 12 ore al giorno, spegnendo le luci del locale soltanto fino a quando l’ultimo cliente ha consumato l’ennesima tsingtao beer da 8 yuan, all’alba del mattino seguente. Si ha però come l’impressione che tutto ciò ad Haron non pesi neppure per un secondo, anche quando domando lui: “A scuola la mattina come fai?” – “La scuola non so nemmeno che forma abbia, gli unici libri che ho sono questi qua” – risponde sorridendo mostrandomi dei quotidiani sgualciti di ormai qualche settimana fa.

“Compro, appena lo zio mi dà il permesso, riviste occidentali. Il mio inglese fa pena, devo migliorarlo. Ecco appunto, guarda qua.” Come una reliquia mi esibisce un periodico sportivo americano (Slam) annunciandomi prima con i fatti che con le parole la sua spasmodica passione per la pallacanestro americana. “Vedi, mio fratello si chiama Kobe… Beh insomma quanti Kobe conosci?”

“Due” – rispondo – “Il fenomeno di Los Angeles sponda Lakers. E tuo fratello.” Haron se la ride di gusto. E mi ringrazia in continuazione. Mi chiede ogni 5 minuti se ho bisogno di qualcosa, se lui può in qualche modo essermi di aiuto. Le sue parole, i suoi occhi, e ripeto, i suoi sorrisi, sono fin troppo esaurienti. Mi sento persino a disagio quando suo zio, un uomo baffuto abbastanza tenebroso, mi offre un bicchiere di thé nero, ancora fumante, caldo ma da un profumo non poi così invitante. Rifiuto con la più banale delle avversative: “Grazie, ma oggi mi sento poco bene, devo aver preso freddo in motorino”. Dai, mentire in una lingua che non è la tua, non è mai una passeggiata. “Raccontami chi sei Haron. Quello che vuoi.”

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“Sono nato nella provincia del Qinghai. Ad un passo dal Tibet. Mio papà ha lavorato per anni in una miniera di ferro vicino a Xining. La mamma invece l’ho sempre vista in casa, tra cucina e camera da letto. Ho molti fratelli e sorelle, alcuni però non si sono trasferiti con noi a Shanghai. La ristorazione non fa per loro.” – La sua allegria è disarmante. Il suo buonumore è contagioso. – “Fin dai primi anni d’età ho sempre e soltanto sentito parlare arabo. Il mandarino l’ho imparato viaggiando. Sono qua a Shanghai da 5 anni. E qualche ideogramma ancora, cavolo, faccio fatica a ricordarmelo.” Fidatevi di me: lo parla quasi meglio di uno studente della Fudan University. È umile, generoso e signorile al tempo stesso. Ha 16 anni. Ma è come se ne avesse vissuti 40. Almeno.

La Cina possiede 20 milioni di musulmani, quanto la Siria e lo Yemen, riferiscono le stime ufficiali.
 L’Islam è vivo e forte nella Cina occidentale. E persino tra i tavoli di questo locale illuminato da neon che brillano, la sacralità di questa controversa religione mi pervade in pieno. Jamil, lo zio, è ancora alla cassa che controlla i conti del pranzo. Come molti altri musulmani nel Qinghai, preferisce il suo nome arabo a quello cinese scritto sulla sua carta d’identità. Il nipote Haron mi racconta che ha iniziato gli studi presso una scuola islamica vicino ad una moschea, mollando poi dopo pochi anni perché i suoi fratellini “sentivano i crampi della fame”.

“Vorrei offrirti una birra, ma finchè lo zio è qua… No alcolici. Vuoi una coca-cola?” Ti prego Haron. Non chiedermelo più. Sono io che dovrei darti qualcosa, da un semplice abbraccio fino alla promessa che questo articolo farà il giro del mondo. La comunità musulmana a Shanghai si mescola e si dissolve, immersa quasi totalmente, come qualsiasi altra etnia straniera, nella grande onda gialla che tutto copre e “spazza via”. Non è facile se si pensa che elementi rituali del mondo islamico (proibizione di bere alcolici e di mangiare carne di maiale) fanno a pugni con la tradizione culinaria e familiare della Cina, che ha in questi due prodotti gli ingredienti fondamenti di ogni festa e vita quotidiana.

L’Islam “cinesizzato” è tipico di un gruppo etnico detto degli Hui, diffuso soprattutto nel Ningxia (Cina centrale), nello Shaanxi, nel Qinghai e a Pechino. La loro è una fede che si basa sugli insegnamenti del Corano, che pratica la preghiera alla moschea, ma che non si interessa della politica e non osa criticare le dinamiche religiose del governo attuale, ma l’accetta come un condizionamento inevitabile, esaltandolo per la sua liberalità.

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“Servo un cliente e torno subito. Scusami tanto.” Ennesima dimostrazione di una gentilezza che non s’insegna. Vive e cresce con l’esperienza. La piccola sorellina di appena 4 anni si aggira tra la cucina e i tavoli del ristorante. Non parla una parola di cinese. Provo a comunicare con lei, la gestualità italiana mi aiuta eccome. Capisco che il mio orologio rosso fuoco attira la sua attenzione. Un sorriso della piccola Nazeera non ha prezzo. La Swatch potrà farsene una ragione. “No, ma che fai? In 30 secondi lei te lo distrugge.”

“Haron, rilassati. È soltanto un semplice orologio di plastica. Ed è pure tarocco. Preso al fake market in Nanjing Road a soli 30rmb… Ma non dirlo a tua sorella, ti prego!!” Un’altra fragorosa, l’ennesima, risata ci avvolge e ci avvicina sempre più. È passato poco più di un’ora dal mio arrivo al ristorante, eppure ho come la sensazione che quelle facce, quegli zigomi scolpiti e rialzati, quegli occhi neri come il petrolio, quell’inestinguibile forza di sorridere ad ogni costo, il velo in testa della madre, le possenti mani dello zio, l’energia del fratello Kobe, l’umiltà di questa famiglia venuta da lontano senza nessuna certezza ma tanta speranza… Beh… mi sembra che sia scolpita nella mia mente da molto più tempo.

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“Mi piace il mio lavoro. Mi sento bene. Sono felice!” Come negarlo. E in fondo chi sono io per affermare che, forse, lui merita qualcosa di più di un folle orario lavorativo, senza alcun senso, senza alcuna sosta, senza alcuna certezza? Chi sono? Perché dovrei fare una cosa del genere? Avrei tanta voglia di prenderlo sotto braccio, portarlo un’oretta fuori da quelle 4 mura che lo tengono prigioniero dall’alba al tramonto. Giorno e notte. Estate e inverno.

In quella frase sussurrata a denti stretti, ma a pieni polmoni e a cuore aperto ho capito che sarei dovuto rimanere lì con lui, ancora un bel po’, provando per una volta nella mia vita ad essere umile, prendendo esempio da un piccolo ragazzino di 16 anni, senza un filo di barba, che ogni giorno al mattino si alza felice, magari avendo dormito 3 ore su un divano comodo a tratti, gettato tra la cucina e la sala, dove la famiglia trova riposo tra una pausa e l’altra.

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Un ragazzo. Ma che dico. Un uomo, e che uomo!! Forse dovrei ripartire dall’inizio di questo articolo, così come della mia vita, sostituendo ragazzino con l’espressione adulto, piccolo con il termine maturo, conoscente con la parola amico. Haron mi ha insegnato tanto. E continua a farlo ogni giorno che passo a salutarlo. “Ti chiamo dopo, appena ho un minuto libero”. Quando vuoi Haron. Quando ti va!

Ho percepito in un amen il vero significato della parola “fatica” e soddisfazione nell’arrivare stanchi e fieri a fine serata. Il suo lavoro, forse, in realtà, non lo delizia così come i suoi sorrisi fanno trasparire. A lui piace quello che c’è nel lavoro: la possibilità di trovare se stessi, la propria realtà. E tutto questo per se stesso, non per gli altri. Ciò che nessun altro potrà mai conoscere.

Sedici anni. Ripeto. Sedici anni. Chapeau Haron. As-salamu alaykum. 

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