Elena M. Wagner
In un giorno di sole così, i Navigli fanno scintille. Ma Fabio Cinti preferisce leggere, scrivere, comporre, suonare, registrare, fare Musica, in casa. Ha due grandi finestre nella cucina-salotto, per cui luce e cielo non gli mancano. A quanto pare, è capace di non uscire per settimane intere. Quando viene fuori a prendermi – lo aspetto al cancello – , mi dice che è quasi un mese, 28 giorni, che vive e lavora nella sua accogliente dimora senza aver mai varcato la soglia. Ha molti progetti in cantiere e poi il pensiero del traffico e le code – persino davanti all’edicola – di Milano lo fanno desistere. Meglio vagare con la mente sulle pagine di un libro o spartito. Anche questo è un modo di viaggiare. Perciò è qui, nel suo appartamento, che Fabio ha regalato a CCT una lunga e piacevole intervista. Ed è stato un regalo davvero generoso. Fabio è l’intervistato ideale: ama conversare, gli piacciono le domande e se può ti dedica tutto il tempo che vuoi, senza fretta, offrendoti magari un thè, biscotti e cioccolato, e a tratti abbracciando la chitarra che tiene vicino al divano rosso e cantando qualche suo pezzo, o di qualche amico o maestro.
Sugli scaffali della libreria, tanti volumi importanti e persino unici – come i libri scritti da autori sconosciuti, stampati e rilegati a mano con copertine colorate, dell’edizione clandestina “I figli belli”: collana ideata e creata nel 2002 dall’amico e poeta romano Mauro Mazzetti, progetto editoriale diventato poi il peer to peer “Voici la Bombe”. E in mezzo, due foto incorniciate: Elisabetta II del Regno Unito e l’attrice americana Kelly Bishop in Emily Gilmore (la sofisticata nonna materna di Rory nel telefilm cult “Gilmore Girls” – in Italia “Una mamma per amica”). La seconda è la “vera Regina della casa”, sorride.
Ma veniamo a Fabio Cinti, cantautore, classe ’77. Dicono sia romano perchè nella capitale ha trascorso molti anni. In realtà è di madre sarda e padre ciociaro. Ha studiato Filosofia, scrive da sempre, canta da quando qualcuno (tra cui l’amico Marco Castoldi in arte Morgan) gli ha fatto notare di avere una bella voce, un bel timbro ed esser intonato.
Nell’Aprile 2011 esce il suo primo album: ‘L’Esempio Delle Mele’. E un anno dopo sta per pubblicare il secondo ‘Il Minuto Secondo’. Esiste però anche un primissimo disco: ‘Musica per lavare i piatti’, una raccolta di 7 pezzi lunghi anche 8 minuti. “Ai tempi lavoravo per qualche piccola compagnia teatrale” – dice – “soprattutto in quel di Firenze, per cui avevo scritto queste musiche strambe. Facemmo uscire il disco con l’etichetta clandestina “I figli belli” e distribuimmo circa un migliaio di copie”.
FABIO CINTI e IL LAVORO
1 – Ho appena finito il secondo disco ‘Il Minuto Secondo’, di prossima pubblicazione. Un concept-album di 14 canzoni: fatto per metà di inediti e per metà di canzoni originali. Stavolta i testi sono tutti miei, tranne uno, di Mauro Mazzetti. Alcune delle cover della seconda parte del disco fanno parte del repertorio lideristico tedesco e inglese: e cioè Handel, Purcell, … Altre sono invece canzoni moderne che hanno però la stessa “aria”, insomma la stessa atmosfera. Ad esempio, ho scelto la canzone “Until” di Sting che è la colonna sonora del film ‘Keith and Leopold’, che ha un’atmosfera un po’ vittoriana; “Frivolous Tonight” della band inglese XTC che ha fatto un disco negli anni ’90 molto bello, ‘Apple Venus’, anche in questo caso, un’atmosfera comune. E’ un disco intimo e il “concetto” è testimonianza della mia vita interiore in relazione alla società, concepito e realizzato in totale solitudine con ospiti (amici) che mi hanno fatto il grande regalo della loro partecipazione (come Lele Battista, Elena Cirillo, Marco Santoro, Federica Sala, Maddalena Balsamo, …). Ma di questo disco, se vorrai, ne parleremo quando sarà uscito…
In che modo usi l’iPhone? Ha delle applicazioni interessanti. Io non sono così ossessionato come altri dalla tecnologia. A me interessa quello che serve: chitarra o pianoforte e voce, o quello che sia. Ho scoperto tardi di avere uno strumento interessante, la mia voce che uso spesso insieme a poco altro. La tecnologia è sempre in funzione della riuscita. Non parto da un “fatto tecnologico” per arrivare alla canzone ma se la tecnologia mi è d’aiuto ben venga, altrimenti mi annoia. Non sono uno “smanettone”, amo la funzionalità e credo che ognuno debba occuparsi di cose di cui è competente.
Non ti interessa sperimentare? Sì, ma per me sperimentare significa un’altra cosa. Lo faccio più sulla struttura della canzone. In genere un pezzo radiofonico ha 5, massimo 10 secondi d’introduzione, strofa, ritornello, e si ripete. Invece nelle mie canzoni, il ritornello spesso non c’è o è solo strumentale oppure la strofa è il ritornello e così via. Non sono il primo a farlo. Anzi. Questo è semplicemente il modo di fare che più mi interessa. Sperimento più sulla composizione, sul testo, che con gli strumenti, sperimento “nella” canzone e non nei suoi contorni. Non sono mai stato un amante spericolato degli strumenti nella loro forma, non sono un collezionista, un “fanatico della chitarra”. Se una chitarra di plastica è funzionale ai miei pezzi, va benissimo.
2 – Da un po’ di tempo scrivo anche per altri e mi occupo di produzioni. Aver fatto un disco come L’esempio delle mele, che ha avuto una risposta discreta di pubblico ma è stato molto ben accolto dalla critica, fa sì che gli altri musicisti se ne rendano conto. E quindi i ragazzi più giovani, quelli che hanno voglia di fare e che ascoltano volentieri questo disco, si rendono conto del valore della produzione. L’esempio delle mele è stato prodotto da me con l’aiuto di altri come Morgan, Giovanni Mancini, Massimo Spinosa, etc. Però di fatto l’ho prodotto io e così oggi lavoro con alcuni giovani artisti come Giovanni Marton, Giovanni Caccamo, Giops, Alessandro Russo – che è anche tastierista e pianista nel mio gruppo ‘Le Nuove Logiche’. Per loro ho scritto e prodotto dei brani. E ce ne sono altri in corso, ragazzi molto bravi con cui ho un rapporto diretto… alcuni di loro mi chiamano anche solo per un consiglio e questo tipo di scambio per me è fondamentale, crea un bell’ambito, quasi una scuola di cui io sono un allievo, forse solo un po’ più evoluto.
3 – Il terzo progetto di cui mi sto occupando è invece editoriale ed ha a che fare con la Bibbia. Mi è stata data una splendida occasione: sono completamente ateo ma ho una mia spiritualità molto marcata e la fascinazione per i mondi metafisici. Da un punto di vista letterario, antropologico, filosofico e filologico, la Bibbia è una miniera di informazioni e cultura incredibile. Quei primi libri più avventurosi come la Genesi, l’Esodo e il Levitico o l’ultimo, l’Apocalisse, sono come “Il Signore degli Anelli” di Tolkien, anzi, molto più potenti (visto il successo storico e l’influenza sociale…).
FABIO CINTI e IL TEMPO LIBERO
Quando non lavoro esco comunque poco, quasi mai. Due o tre volte al mese. Vivo con una persona fantastica, sto bene a casa. Esco soltanto se mi interessa davvero qualcosa, vedere una mostra, un film o un concerto, cose normali insomma, vado volentieri alla ricerca di abiti, scarpe, un certo tipo di moda mi interessa. Esco anche se mi interessa “la giornata”, la luce o la pioggia, non so, ma ci devo riflettere, pensare, uscire di casa non è una cosa qualunque da fare! Mi capita di stare tanto in giro, per questioni di lavoro, per cui se posso e devo stare a casa, a lavorare, sono felice. (Al limite esco a prendere le persone che vengono a trovarci e arrivo fino al cancello!) Stare a casa e avere a che fare con il computer e i libri, è una scoperta continua. Non la vivo come un’abitudine. Andare in giro è stancante, non amo la folla né i mezzi pubblici. Solo spostarsi dal Naviglio Grande al Duomo per me è allucinante. Mi riempio di rumori, vedo palazzi nuovi, tutte quelle persone che dicono qualcosa, un rumore fitto e continuo. Diventa un’esperienza carica di emotività che, per mia natura, non posso ripetere troppo spesso. Sono sempre stato così. Se vuoi è una piccola forma di misantropia. In realtà sono di natura accogliente – infatti adesso ci facciamo il thè – per cui vengono spesso amici a trovarmi e passiamo anche ore semplicemente a parlare, o a suonare…
Dove sei cresciuto? Per metà in Ciociaria, in un bel paesino medioevale sulle colline lussureggianti tra il Lazio e l’Abruzzo che si chiama Strangolagalli (curioso no? in provincia di Frosinone), e per gran parte del mio tempo in Sardegna, in un paese invece sul mare che si chiama Torpè (in provincia di Nuoro). Fino ai vent’anni ho vissuto in questi due posti meravigliosi. E per me lo svago, la passeggiata, l’incontro con me stesso è tornare là… da un po’ di tempo preferisco tornare in Sardegna dove, peraltro, vive mia madre. La città è un luogo che mi dà tanti input diversi e contemporaneamente offre mille possibilità mettendomi in una condizione perenne non di disagio ma di ansia, anche bella, una specie di impaziente voglia di fare. Però, se mi devo ritirare, stare con me stesso, preferisco quei posti lì. Se devo trovare delle “mie zone”, allora preferisco altri luoghi rispetto alla città… che è una specie di luna park!
Cosa pensi di Milano? Trovo che Milano sia una città molto bella. A Roma, dove ho studiato Filosofia e lavorato per molti anni, mi barricavo ancor di più in casa. Non sopportavo l’idea di dover dire “ci vediamo tra un’ora” solo per dover attraversare la città. E’ pazzesco, prendo l’aereo e tra un’ora sono a Londra! Milano invece è diversa, è tutto più comodo, più scorrevole mentre a Roma è tutto lento e lontano. “Roma dove sei, eri con me…” (accenna cantando ‘Vacanze Romane’ dei Matia Bazar). E’ una gran bella città anche Roma, ovvio, ma ognuno si sceglie i posti anche in base al proprio carattere e alle proprie esigenze.
Da quanto tempo vivi qui? Vivo a Milano da due anni. Il primo anno in Lombardia, l’ho vissuto a Monza. Come sanno tutti, a casa di Morgan. Lavoravo a Roma prima di arrivare a Monza finché un giorno Marco m’ha detto “basta, cosa ci fai ancora lì?”. Facevo già il musicista però ai tempi sbarcavo il lunario con altri lavori. “Tu devi fare il musicista. Vieni qua anche domani, prenditi il necessario, gli strumenti, il computer, organizzati, vieni a stare da me e facciamo musica”. Ed io una settimana dopo ero da lui. Lavoravamo assieme tutti i giorni, eravamo sempre in giro, in albergo. Di fatto, lavoravo per lui. Facevo l’assistente “stregone”. Mi occupavo soprattutto dell’assistenza artistica, cioè dei suoi rapporti con altri artisti come Battiato, Fossati, etc. E infine durante i live ero lì e lui mi chiamava sul palco a cantare. Sempre cose mai provate, tutto improvvisato. Oppure stavamo in casa a lavorare al mio e al suo disco… ai tempi c’era uno scambio intellettuale vero… poi qualcosa è cambiato e adesso eccoci qua.
[ FACCIAMO IL THE’? BISCOTTI? ]
FABIO CINTI e L’ARTE
Chi è il vero Artista? Quello capace di rivolgersi alla massa o ad una nicchia? E questa è una scelta, un rischio, un difetto o privilegio? Nel manifesto di “Walk On The New Side”, parli dell’Estetica dell’Arte e descrivi molto bene chi è l’Artista, di cosa ha bisogno e quali sono i suoi diritti. Ma quali sono i suoi doveri? Qual è la sua funzione? Il problema non sta nell’artista ma nel fruitore. L’artista vero o finto si scopre col tempo. Il vero Artista dura nel tempo. Non mi ricordo il nome, ma c’è uno scrittore che disse: uno scrittore è una persona che scrive almeno 30 pagine al giorno. Io dico che un cantautore è un cantautore se scrive almeno 3 o 4 canzoni al mese. Altrimenti è uno che lo fa ogni tanto, senza necessità, per svago. Poi magari scrive anche un pezzo bellissimo, però l’artista è anche un artigiano che vive del suo lavoro (non solo da un punto di vista dei guadagni ma soprattutto per un fatto morale, di necessità contingente) e occorre tempo e dedizione per fare le cose come si deve. Il problema di cui parli tu riguarda i fruitori. Non voglio dire una banalità, però il livello medio di cultura si è schiacciato verso il basso. La cultura che esula da quella di massa, generale, fatica a emergere. Rispetto al passato, molte più persone oggi sanno ma sanno solo fino ad un certo punto. C’è una fascia di pubblico molto uniforme, tutti (più che nel passato, dove pochi sapevano molto) sanno le stesse cose, pochi escono fuori a scoprire le alternative che avrebbero. Per cui l’artista o è dentro quella fascia lì oppure lo seguono in pochi. E in quella fascia ci sono sempre i soliti Vasco Rossi, Laura Pausini, Eros Ramazzotti, … Poi ci sono quelli ai margini di questa fascia come Silvestri, Morgan, Bersani, Fabi, e altri, che hanno avuto un po’ meno successo ma sono comunque famosi. Fuori di questa fascia, oltre i suoi confini, c’è una marea di gente bravissima (e, ovvio, anche un sacco di gente inascoltabile!).
Un artista è una persona che ha un mondo demoniaco e angelico dentro di sé che lo tormenta, che lo sveglia la notte, che non lo lascia vivere, che pregiudica gli innamoramenti… un movimento mostruoso che genera la necessità di comunicare e di trovare un canale per farlo, una forma espressiva liberatoria. La cosa più importante è la comunicabilità, ma anche il pubblico deve fare uno sforzo per capire. Ho scelto di seguire una strada, un certo modo di comunicare che non ho certo inventato io, anche se certamente ho aggiunto qualcosa o, nel tempo, vado aggiungendo. Così come altri hanno scelto altri linguaggi per poi modificarli. Si continua un filone, come nella filosofia c’è la speculazione, così nella Musica c’è una continuità filologica. Quanto al pubblico, non devo scendere a un compromesso con esso perché mi capisca ma pur sempre a un pubblico mi rivolgo e il compromesso è questo: un compromesso tra compromessi! Ripeto, il problema non sta nell’artista ma in chi ascolta: la gente spesso sceglie senza sapere perché o senza nemmeno conoscere l’esistenza dell’alternativa.
Secondo te è una situazione particolarmente italiana? All’estero è diverso? O si tratta di un cliché? Secondo me non ci sono grandi differenze. Una differenza forse è che in Italia siamo tanto ossessivi. Si vede anche nei fan. Non si riesce a dividere la figura dell’artista dalla persona. Si sta dietro a tutto quello che dice e fa un artista, anche a cose inutili e insulse. Si sente dire che all’estero le proposte alternative vengono comprese, hanno più spazio e valore. Non so, mi sembra tanto un luogo comune, la ricerca dell’America… Fuggire all’estero è comunque da codardi. Si deve essere artisti nella propria patria perché GLI ARTISTI FANNO IL PAESE, GLI ARTISTI SONO QUELLI CHE DANNO IDENTITA’ A UN PAESE. Ci si ricorda dell’Italia perché è stata fatta da personalità illustri quali Dante Alighieri, Giotto, Caravaggio, Leonardo da Vinci, Michelangelo, Leopardi, etc. etc. L’Italia è questo. Un Paese è fatto dalle sue opere. Chi dice di voler andare all’estero perché lì trova successo, è un mercenario. Vuoi andare in Inghilterra perché qui non campi con la musica? Allora fai un altro lavoro. Perché se con la musica ci vuoi solo guadagnare vuol dire che non sei un artista, non lo sei fino in fondo e il rischio ti spaventa. Poi ti puoi lamentare, anch’io lo faccio, siamo umani, la fatica e la mancanza di soddisfazioni a volte fanno vacillare ma bisogna essere coerenti e capire cos’è che si vuole. Il tormento e l’estasi di Michelangelo non avevano a che fare con i soldi, l’Arte esiste a prescindere dai soldi e dalla fortuna che se ne può ricavare. Poi a questa gente che vuole fuggire bisognerebbe chiedere: ma cosa hai fatto tu, per cosa vorresti guadagnare dei soldi in Italia? Perché il popolo italiano dovrebbe pagare i tuoi dischi e farti sopravvivere con la musica? A me interessa cantare in italiano, esprimermi nella mia lingua… magari canto anche in inglese e tedesco ma lo voglio fare qua. Perché mi interessa cambiare questo posto, perché è il posto dove ho le radici, dove sono cresciuto, che mi ha educato e portato ad essere quello che sono. E’ un mio punto di vista, poi ciascuno di noi ha le proprie idee e l’arte, va detto anche questo, non ha confini, dunque un posto vale l’altro… e allora perché non cercare di cambiare le cose qui come hanno fatto i nostri predecessori? Poi… ci vado volentieri a stare anche due anni in Inghilterra; anzi, mi piacerebbe andare più a nord, Helsinki o Oslo, l’Islanda… Oppure in Oriente, in Giappone, ma non per fare i soldi, per me.
È vero che la cultura si è appiattita in entrambi i sensi, però è anche vero che oggi con questo grande strumento che è Internet, le possibilità di sapere e conoscere le proposte alternative aumentano. Questa democratizzazione informatica ed informativa, questa conoscenza sempre più facilmente accessibile, come la vedi, per comunicare l’arte? È sicuramente un’opportunità enorme. Che però non pregiudica la quantità degli artisti che possono nascere. Secondo me in un decennio viene fuori un certo numero di artisti, sempre quello, non aumenta, non diminuisce. Internet dà visibilità a più persone ma questo non fa variare il numero degli artisti veri. Vediamo che c’è più gente che ci prova mentre prima era più difficile. Poi ci sono dei ragazzi che si presentano (succede anche con alcune persone che mi lasciano delle demo) con due canzoni e vogliono diventare famosi. Allora dico, bene, vai per strada, ti dai fuoco e vedrai che domani sei su tutti i giornali! Tutti vogliono il minuto di celebrità, è una cosa vecchia questa, superata! Basta, basta con questa notorietà, siamo tutti famosi, tutte facce da facebook, dunque non lo è nessuno! In realtà è uguale a sempre, i modi sono diversi ma gli artisti bravi sono sempre quelli. C’è più esposizione ma la gente brava che ha qualcosa da dire rimane la stessa. Vero che c’è più gente istruita e quindi anche più persone in grado, ad esempio, di suonare bene uno strumento… ma la tecnica non è arte, non basta, si sa.
FABIO CINTI e LA DISTRAZIONE (o FELICITÀ)
Tornando a te, ti capita spesso di essere “distratto”? Ti riferisci al brano La Distrazione? Una cosa che ho imparato negli anni, faticosamente, anche dalla sofferenza della separazione da persone care venute a mancare, è che la felicità è legata al momento. La felicità è estremamente legata al momento. Ed io ho imparato a vivere per momenti. La felicità in senso occidentale invece è come un “carro armato”, appunto, è qualcosa che ti schiaccia e ti impedisce di vedere le cose, ecco perché bisogna distrarsi. Non vorrei essere banale, però ad esempio il momento in cui la sera si è accoccolati sul divano e ci si rende conto di stare bene, quando si è con la persona che si ama in certi momenti di intimità… e si è felici, ecco, questo è importante. Poi magari va tutto male, non si ha i soldi per pagare le bollette, non si riesce a fare quello che vorremmo… però quello resta un momento felice. La felicità è il momento. Invece di progettare sempre il futuro, dovremmo pensare ad ora. Perché alla fine gli anni passano. Basta esserne consapevoli. Adesso, ad esempio, sono qui con te a bere un thè caldo, c’è gas perché le bollette sono state pagate, dalla finestra entra una bella luce, anche questo può essere un piccolo momento di felicità. È inutile andare alla ricerca di qualcosa che magari non ci appartiene neanche. Il mio momento è questo, qui.
Siamo però abituati a sentir dire che la felicità è una ricerca continua, e l’uomo infatti non è mai soddisfatto… tu invece dici che la felicità è uno stato. Assolutamente sì. Che altro è? È il momento in cui stai bene e te ne rendi conto. Tutto ciò che vai cercando, tutti quei desideri… Una volta Mauro Mazzetti mi disse una frase fantastica: “dovremmo prendere appunti per un magnifico presente”. Cioè tutti i giorni dovremmo essere felici di cosa abbiamo vissuto e fatto. Nel brano La Distrazione “chissà chissà perché mi sembra di sentire che la felicità è come un carro armato” dico questo. La felicità intesa come ricerca spasmodica di qualcosa che non c’è, distrugge. Tutto il resto fa parte dello studio, della ricchezza personale. Quello che faccio da un punto di vista artistico per la musica non ha a che fare con un fine. Non faccio le canzoni per vendere e fare i soldi. Lo faccio perché è un’esigenza fisiologica. È necessario, urgente. Poi naturalmente, di necessità virtù…
I momenti di distrazione sono il contrario di quello che uno pensa. Sono dei momenti di consapevolezza. Forse era un modo che sentivo dire a mia madre da piccolo, quando diceva “ho bisogno di distrarmi un attimo” e intendeva svagarsi un po’. Ecco, bisogna distrarsi più spesso, essere più distaccati. Nella filosofia, proprio nell’Estetica Kantiana, ovvero nella Critica del Giudizio, c’erano due modi di vedere le cose: guardare la realtà da un punto di vista universale oppure guardare il particolare per accedere all’universale. Noi siamo troppo abituati a vederla in questo secondo modo, cioè a stare con l’occhio nel pixel! Se però vuoi vedere le immagini nella loro complessità e unicità devi allontanarti dallo schermo! Qualunque cosa è importantissima o non lo è affatto perché sappiamo bene della nostra fine e quanto si è aggrappati alla vita: tutto questo, la musica, la casa, facebook, non ha senso. E allora bisogna vedere le cose per il senso che hanno ed essere onesti con se stessi.
Ma questa è un’attitudine che appartiene in particolare alla nostra società? Forse in un passato oppure anche oggi ma in aree geografiche diverse, si distraevano/distraggono di più? Sicuramente la società occidentale contemporanea ne è più soggetta. Ma questo atteggiamento fa parte della persona umana in quanto animale, della meccanicità dell’essere umano. E in Occidente (ma anche in Oriente ormai, questa distinzione non conta più), per via di una società attrezzata in modo così funzionale – lavoro, pausa, lavoro, stacco, spesa, cena, dormi, sveglia, ripeti – è così per molti. Io sono anche fortunato perché faccio un lavoro senza orari. Ma basta poco per distrarsi. E chi non riesce a farlo, pecca un po’ d’intelligenza. E’ semplice, basta alzare gli occhi al cielo. E se come me non esci spesso di casa, allora ricordati di guardare fuori dalla finestra.
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