Giulia Dedionigi
La notizia della costruzione di una moschea ai piedi di Ground Zero mi sveglia sbalordita. I giornali non parlano d’altro e il dibattito, sulla metro che porta da Brooklyn a Manhattan, si fa acceso. Due ragazzi, mentre sorseggiano un tazzone di caffè, entrambi con il New York Times sotto il braccio, mi spiegano che solo chi abita fuori dalla città può essere contrario. Lavorano vicino al World Trade Center – guai a chiamarlo Ground Zero – e quando ci passano davanti ancora non sono tranquilli. “Ci ha cambiati per sempre”.
Però poi mi parlano di libertà di religione, del diritto inalienabile di credere nel proprio dio. Mi ricordano che lavoravano più di cinquanta musulmani nelle Torri Gemelle quando sono crollate. È la mia fermata. Quando si chiudono le porte, la conversazione sta andando avanti senza di me. Mi guardo intorno e non trovo una faccia uguale. Qui ogni viso ha la sua storia. Veli, copricapo, croci e punti rossi tra gli occhi. Simboli di una città ferita che, forse, dimostrerà di essersi rialzata.