Dallas, 22 Novembre 1963 | intervista ad Adam Braver

DALLAS Adam Braver scrive nero su bianco una storia unica. Un frammento di storia ancora vivido nella mente degli americani. Sarà perché “tutti” amavano John Fitzgerald Kennedy, sarà per l’eleganza con cui Jackie veniva immortalata in quei memorabili scatti fotografici, sarà perché Andy Warhol ne ha fissato il volto a tinte forti nella cultura moderna.

Adam Braver, insegnante alla Roger Williams University e alla NY State Summer Writers Institute, vive a Rhode Island. I suoi libri narrativi sulla storia americana sono stati tradotti in diverse lingue, recensiti dal Publisher’s Weekly al Los Angeles Times e definiti “Magnifici e accattivanti”. Barnes & Noble lo ha selezionato per “Discover New Writers”.

In un quieto mattino di novembre, Jackie non vorrebbe dover seguire JFK per sfilare a bordo di un auto tra milioni di Texani accorsi per salutare il Presidente. Ma come ogni volta, lei monterà su quell’auto. La stessa dove troverà la morte suo marito. I colpi esplodono sul volto del presidente, rimbombano tra la folla e macchiano di sangue l’elegante abito di Chanel scelto da Jackie quel giorno. Cospirazione e omicidio. Follia e Tragedia. Emozione e paura. In una cronaca narrativa, Braver, immagina quei lunghi attimi osservandoli con cura come se fossero “reali”, come se fosse adesso. Raccoglie le testimonianze, annota i dettagli, investiga nella disperazione e coglie l’essenza di un evento che ha sconvolto l’America per sempre.

Nel 2013 Braver fu così gentile da concedermi cinque domande per scoprire i segreti della sua scrittura e del suo libro. In occasione dell’uscita di Jackie film diretto da Pablo Larraìn e candidato a tre premi Oscar CCT vi propone questa intervista ed inserisce il libro Dallas, 22 Novembre 1963 nei Sunday Tips per la lettura.

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MM: Lei riscrive e “reinventa” la storia Americana, arricchendola di dettagli e ricordi facendoli apparire così naturali, concreti e plausibili. Quali sono le sue fonti e quali sono le ispirazioni? 

AB: Quando inizio un nuovo libro, creo delle regole e prometto a me stesso che utilizzerò solo fonti ufficiali per scriverlo. Ci sono così tanti scritti e numerose analisi dall’assassinio Kennedy che io non volevo essere influenzato da esse. L’unica interpretazione alla quale ero realmente interessato era quella di persone che hanno avuto una diretta connessione con quel tragico evento. Questo non significa che fossero necessariamente le più accurate, ma sicuramente le più veritiere e penetranti secondo i loro ricordi. Da quel punto in poi, ho solo sperato che la storia potesse trovare la sua via narrativa. La chiave di lettura si trova nella relazione tra fatti, ricordi e le diverse storie e il modo in cui, unite, fossero già una storia ben delineata. Spesso elementi individuali non si connettono né supportano, ma in uno strano modo essi ti guidano a quella che accettiamo come una verità  assoluta. Infine, ho fatto alcune interviste ma per la maggiore mi sono affidato ad articoli e trascrizioni relative all’evento.

MM: Entrare nella mente di Jackie per vivere le emozioni drammatiche di una donna e di un’icona. Come ci è riuscito? Perché Jackie?

AB: Jackie mi ha intrigato per le sue enigmatiche qualità. Devi ricordare che, pur avendo una mia personale sensibilità, rimango primariamente uno scrittore di narrativa. Sono sempre attratto da personaggi che hanno una forte esteriorità e una introspettività segreta – poiché amo introdurmi nei meandri della loro mente per valorizzarla ed esplorarla. Inoltre, mentre ero alla ricerca dei temi per il libro, mi sono accorto che c’era così poca informazione su ciò che fosse accaduto durante il volo di ritorno da Dallas – specialmente riguardo a Jackie. Pensandoci sembrava davvero l’ultimo momento privato che Jackie condivideva con il marito (mentre, nel frattempo, faceva i conti con l’improvviso e inaspettato shock di un evento tragico). Credo che avrei voluto far parte di quel quel momento privato, prima che diventasse di dominio pubblico. Molto spesso Jackie è ritratta come un’abile stratega. Forse lei lo era. Io non lo so, ma so che lei era un comune mortale, un essere umano che ha attraversato un’esperienza orribile davanti a tutto il mondo.

MM: La storia Americana è ricca di momenti tragici, di perdite significative. La sua non è una cronaca ma narrativa emozionale. Perché raccontare la morte di Kennedy?

AB: Questo, in molti modi, era un evento personale per me. Ero molto meno interessato a ricreare gli avvenimenti di Dallas più di quanto non fossi realmente interessato a capire l’America nella quale sono cresciuto. Mio figlio era solo un neonato quando avvenne l’attacco alle Twin Towers, mentre lui cresceva – il mondo ha assunto una nuova forma dopo quel giorno. Il 9/11 ha influenzato le sue scelte. Le aspettative politiche, le implicazioni culturali e le negoziazioni funzionali del suo mondo sono cambiate e sono la conseguenza  e ombra gettata sull’America  dopo l’Undici Settembre. Io avevo pochi mesi quando Kennedy fu assassinato, e così proprio come è accaduto a mio figlio, io mi sento cresciuto in un mondo che non solo è stato alterato dall’assassinio di Dallas, ma profondamente alterato da una nuova serie di convinzioni, aspettative e timori. Questo è stato il mio approccio per entrare in contatto con il tema del libro e scoprire in quale momento il mondo ha subito una scossa – guardandolo con gli occhi di coloro che erano presenti quel giorno.

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MM: Realtà e finzione si mescolano perfettamente. Il segreto per riuscire ad immaginare e scrivere tutto ciò che è accaduto pur non essendoci stato.

AB: Vorrei avere un segreto. Suppongo che sia simile ai metodi usati per la recitazione – mi libero da me stesso, dalle mie interpretazioni, desideri o percezioni e mi lascio sopraffare da quelle delle persone di cui scrivo. Nel caso di Jackie, ho sentito che fosse importante connettermi in modo onesto al suo intenso dolore piuttosto che concentrarmi sul valore storico che lei ha avuto. Come molte persone nel mondo conosco il dolore intenso della perdita, e sapevo che la “mia” Jackie sarebbe stato più realistica se avessi scritto di lei con l’universale onesta che investe il cordoglio invece di ritrarla come una perfetta ricostruzione più adatta ad un museo delle cere.

MM: Misfit è il suo nuovo progetto editoriale, a breve in uscita anche in Italia. Jackie e Marilyn sono due Icone dell’era moderna. Come è riuscito a interpretare la loro psicologia e cosa l’ha spinta – da uomo –  a raccontare attimi della loro vita?

AD: Sai, ad essere completamente sincero, non avevo nessuna intenzione di narrare la loro vita. Quello che mi motiva è trovare risposte alle mie domande e diventare il mandante delle persone di cui scrivo.  In un certo senso, ritrarre personaggi così diversi dalla mia realtà (per genere, tempo, stile di vita etc.) è un modo per essere libero di esplorare le questioni che mi turbano o mi confondono. Forse è un po’ da codardo nascondersi dietro la loro pelle? Un’altra possibile prospettiva potrebbe essere che, come detto prima, sono attratto da personaggi dalla forte esteriorità ma con una interiorità fragile e privata. Mi piace la sfida tra questi due reami. Ma è divertente perché non ho mai pensato alla connessione tra le due donne (come icone di un’era comune, le relazioni con JFK, etc.) fino a quando non avevo quasi finito di scrivere MISFIT. Sembrava un mondo così diverso. 

MM: Il suo prossimo libro?

AD: Adesso, sto cercando di lavorare ad un romanzo molto, molto poco basato sulle connessioni che ci sono tra Eisenhower e il suo autista durante la Seconda Guerra Mondiale, Kay Summersby. Ma vedremo… continuo a ripeterlo da troppo tempo!

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