La mia Plaza Mayor: i custodi delle scatole di cartone

Elena Mazzoni Wagner
photo gallery: Elena MW & Alvaro Cuallado

Ai tuoi occhi dipinti di cielo

MADRID Il primo ricordo che ho di Plaza Mayor risale all’Agosto del 1999. Avevo dodici anni e quel viaggio fu l’inizio della mia storia d’amore con la Spagna. Ricordo che cenammo in questa piazza, in uno di quei restaurantes de tapas dove i madrileñ@s* non mettono bocca (poco buoni e troppo cari) mentre i turisti, si sa, pur di sedere in questa cornice, ci cascano. Ricordo, davanti al nostro tavolo, un bailarin de flamenco che pareva non appoggiasse mai i piedi a terra.

* (@ = simbolo utilizzato nella scrittura spagnola più “social”, per dare ad un’unica desinenza il doppio valore di genere, sia maschile che femminile)

Dopo quindici anni, sono tornata in questa piazza, in inverno e poi in estate. A fine Gennaio l’ho attraversata di notte e (nonostante piumino-sciarpa-cappello-guanti) faceva un freddo tremendo. Ricordo che vidi alcune persone dormire sotto i portici, su letti di cartone. E così ho ri-visto per tutto il mese di Luglio che ho vissuto qui, nel barrio (quartiere) La Latina, scoprendo che questa è la normalità, ad ogni stagione.

Così, se adesso penso a Plaza Mayor, penso a scatole e scatole di cartone. E ai loro custodi.

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ATTORNO A PLAZA MAYOR

Nella iglesia (chiesa) de San Isidro (Calle de Toledo, 37), i devoti vengono e vanno continuamente per pregare e accarezzare il Santo agricoltore, Patrono della città. Ognuno attende il suo momento per chiedere chissà quale grazia o perdono (più probabile la prima?) e toccare la statua, accarezzarla per bene, come se quel volto e quelle mani e quei piedi fossero di una persona vera. Davanti alla tienda (negozio) Casa Hernanz (Calle de Toledo, 18) – dove dal 1840 si vendono alpargatas (o espadrillas) fatte a mano – i turisti fanno la fila già prima dell’apertura e occupano il marciapiede per diversi metri.

In una viuzza parallela a Calle de Toledo, che porta sempre alla piazza, ai bar La Campana e La Ideal (Calle de Botoneras, 6 e 4), i clienti ordinano il famoso bocadillo de calamares (panino con calamari fritti) a 2,70 euro. La scelta più saggia rispetto ai ristoranti che decorano i portici di Plaza Mayor (e dintorni) con immagini di paella, tapas, tortilla, patatas bravas, jamón, chorizo, pescado, calamares, … E in mezzo a questa mostra fotografica sulla cucina spagnola, un intruso: le pizze dell’immancabile ristorante pseudo-italiano. I più artistici, oltre ai menù posterizzati, espongono anche gli alimenti: dai pesci in vetrina ai classici prosciutti appesi. Bravissimo in questo è il Museo del Jamón. Un consiglio: ai camareros che gentilmente vi invitano a fermarvi, imparate a dire: “Gracias, ya comido” (Grazie, già mangiato). Per fortuna, ai ristoranti-per-turisti si alternano i negozi-di-souvenirs: come resistere a un ventaglio made in China?

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IN MEZZO A PLAZA MAYOR

Intanto, attorno alla statua equestre di Filippo III – al centro della piazza di cui ordinò la costruzione – si svolge la solita fiera: pittori, caricaturisti, musicisti di strada, statue viventi, pupazzi Disney, strani animali, creature spaventose e sagome in costume. Alcuni sono spagnoli, altri di altrove, molti sud-americani. E anche tanti cinesi: loro però non si travestono, massaggiano le schiene e i polpacci dei turisti più stanchi, seduti su barattoli o sgabellini di plastica.

Nel primo “girone” attorno a Felipe III a caballogli artisti e animatori di strada si mescolano ai visitatori da tutto il mondo. Questi passeggiano guardando – attraverso lo schermo dei loro smartphone, tablet e camere fotografiche – le quattro facciate, color ocra, della piazza progettata nel 1619 da Juan Gómez de Mora e ricostruita dopo tre gravi incendi; oggi, recentemente restaurata, la vediamo come nel 1790 la ridisegnò l’architetto Juan de Villanueva. Porticata e a pianta rettangolare (129 x 94 metri), è completamente chiusa da edifici a tre piani, con molti appartamenti in affitto (agli stranieri); conta 237 balconcini in ferro battuto, quattro torri con guglie in ardesia (come i tetti) e nove porte di accesso che consentono di arrivare da ogni lato in quello che un tempo era il principale mercato della città, teatro di autodafé (esecuzioni degli eretici durante l’Inquisizione spagnola, definitivamente soppressa nel 1834) e corride (fino al 1878). Questo rettangolo di Madrid sembra aver esaurito la sua Storia: adesso è solo il cuore monumentale della capitale, un luogo venduto al turismo più ignorante, una delle tante favole da raccontare nelle guide. 

Al centro, sul lato nord, la Casa de la Panadería – (che guarda di fronte, a sud, la Casa de la Carnicería e che dal 1992 vanta gli affreschi di Carlos Franco) – è oggi l’INFO POINT di riferimento per i turisti. Dalle 9.30 alle 20.30 di ogni giorno dell’anno, qui potete trovare tutte le informazioni “essenziali”: i musei da visitare, gli eventi da non perdere e le offerte dei vari tour guidati, anche in bus, per vedere il “meglio” della città. E, naturalmente, la mappa di Madrid. Mappa sponsorizzata dalla grande M e dal musical Disney “El Rey León”. Infatti, oltre ai luoghi d’interesse turistico e alle fermate della metro, sono segnalati tutti i McDonald’s presenti in centro, dove spendere il buono sconto incluso: un McMenù (hamburger + french fries + drink) a solo 4,95 euro. L’ente del turismo di Madrid ha ragione: perché “ir de tapas” e conoscere la cucina locale, quando accanto ad ogni museo o monumento più importante c’è la famosa M globale?

Meglio allora sedersi ai tavolini che occupano il “secondo girone” della piazza, con l’illusione di provare la vera cucina spagnola. E, magari, rendersi conto che alle nostre spalle, sotto i portici, ci sono gli invisibili del “terzo girone”: i custodi delle scatole di cartone. Se i turisti guardassero con attenzione le proprie fotografie, li vedrebbero appena dietro ai loro sorrisi da cartolina.

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SOTTO I PORTICI

Gli abitanti dei portici di Plaza Mayor sono almeno 30 persone – mi ha raccontato uno di loro, un ragazzo spagnolo; sono uomini e donne di diversa età e diverse origini. Quando l’Ufficio Informazioni Turistiche chiude, loro si preparano per cenare e dormire: condividono il cibo trovato in qualche maniera o donato da un passante, chiacchierano tra loro e con gli animatori della piazza, aspettano che i turisti finiscano il dessert e che i camerieri sparecchino i tavoli; poi, nel silenzio interrotto da una chitarra o da una voce ubriaca, si addormentano sui loro materassi di cartone, dentro le scatole, lungo il muro; e al mattino, prima che la piazza si svegli, smontano le loro camerette, nascondono i cartoni nei vicoli vicini, dietro grate o bidoni; vivono la giornata a modo loro e poi, la sera, tornano qui, a “casa”. La Policía Municipal? Li lascia in pace.

Non tutti però amano stare in compagnia. E sembrerà strano ma, in questa bizzarra moltitudine umana, è possibile trovare anche molta solitudine. Al numero 25 di Plaza Mayor, dal 1894 c’è un negozio di sombreros (cappelli) che si chiama La Favorita; ogni sera, qui davanti, una piccola donna con un berretto e tratti sud-americani, forse peruviana, impiega almeno mezz’ora ad incastrare perfettamente una decina di scatoloni, come a costruire una lunga casetta di cartone, legata con alcune corde alla serranda del negozio chiuso. Le ho chiesto a cosa servisse ma ha finto di non saperne niente.

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DUE OCCHI DIPINTI DI CIELO

I veri solitari, però, scelgono i portici dell’edificio opposto (meno toccato dallo sguardo dei turisti e, per adesso, nascosto da un’impalcatura). Nell’angolo prima del ristorante pseudo-italiano e della più tradizionale Cervecería (al numero 2 di Plaza Mayor), ho visto due occhi azzurri persi in chissà quali pensieri e un sorriso barbuto accennato a chissà quale ricordo. Ogni volta che uscivo di casa o tornavo, a qualsiasi ora del giorno e della notte, lui era sempre lì. Solo. A dormire con un telo grigio e uno zaino per cuscino. A consumare un pasto o un pacco di sigarette, lasciati da qualcuno. A fissare il vuoto o a parlare e ridere con se stesso. Ogni volta, avrei voluto dirgli qualcosa ma non sapevo che parole e lingua usare. Lo guardavo con discrezione, per non farmi notare. Lo guardavo perché era bello. E cercavo di immaginare il motivo per cui un uomo di 30 o 40 anni poteva essersi arreso così e vivere nell’ombra, con una coperta e poco più, in questo pezzetto di mondo che odora di calamari fritti e pipì. Dopo circa un mese, il giorno prima di partire da Madrid, sono andata a salutarlo con alcune cose. Cose. Che brutta parola. In realtà, la maggior parte di ciò che abbiamo è inutile e forse ho sbagliato, ho avuto la sciocca presunzione che a lui potessero servire quelle mie “cose”. Spero che abbia gradito almeno il panino e la lettera. Dalle sue poche parole, mi è sembrato di intuire un accento francese, ma chissà. Chissà da dove viene e dove andrà, se mai se ne andrà via da lì.

Plaza Mayor è entrata nella routine della mia temporanea quotidianità madrileña in questo modo. Ci si abitua a tutto, ma abitudine non è sinonimo di indifferenza. Plaza Mayor è una piazza come tante altre, racconta in sintesi le nostre città-mondo. Per il resto, dipende da noi: si può credere alle favole oppure alla realtà; si può subire oppure reagire; si può scegliere di vedere solo l’insieme oppure cercare il particolare, il dettaglio che fa la differenza e non lascia indifferenti, che fa arrabbiare o innamorare. Come lo sguardo trasognato di due occhi dipinti di cielo.

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GRAZIE alla mia amica Bri (Bridget Lollhell), per aver condiviso un po’ di questa piazza… insieme a me!

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