“Eaten by Giants” @ NYC

Eleonora Monzali

Raro vedere una luce così invadente come quella che riempie la cabina dell’aereo; forse l’ho vista in qualche tardo pomeriggio di primavera passare sui banchi di scuola. Io e NYC, tutti gli altri dormono o sembrano non accorgersene. Meglio così. Esclusiva. Una ragazza italiana, che vive in città, parla ai suoi amici in visita della grigliata che George sta già preparando in giardino per loro. Li invidio un po’ ma NYC scuote la testa.

NYC, finalmente (e dico finalmente perché sono passati ben 13 anni) esce in Ottobre con la sua ultima opera, “Eaten by Giants”. L’album è fantastico, è quel tipo di lavoro dove ti piacciono tutti i pezzi, anche quelli più brutti. Di cose brutte ne tratta E. by G., cupe, così adorabili. I pezzi sono come quelle donne bruttine che ti piacciono tanto e incredibilmente le fissi, come se volessi che da un momento all’altro ne trasparisse l’anima.

“Non forzo le cose, lascio che mi scorrano dentro e poi fuori in un flusso di continuita”. NYC si fa aspettare e porta con sè nell’ultimo album l’esperienza di un artista più maturo, che non ha paura di sperimentare nuove sonorità. Siamo molto lontani dai gusti pop-rock del precedente album. Sono passati gli anni ’90, i fantasmi di Ghostbusters convivono tranquillamente coi vivi e vanno a prendere il caffè da Starbucks; Kevin Mc Cullister ha più anni dell’ultimo fidanzato di Catherine Zeta-Jones e le vetrine di Saxs appaiono un po’ più bigie, ma è proprio ora che ti fai il cappotto e ti cuci addosso una nuova sensibilità.

Quando la tua città cambia, tu viaggi in parallelo a lei; ce ne è voluto di tempo per assimilare questo cambiamento e saperlo descrivere. Un giorno mi sono svegliato e ho iniziato a scrivere, lei è la divinità e ogni tanto mi appare”. Eaten by Giants è il figlio di NYC e della sua città. Negli USA è già nei primi 20 album più venduti della settimana. NYC lo porta in braccio facendosi spazio tra le altre madri coi loro figli, a loro ammicca sapendo che hanno ispirato molti dei suoi brani.

“Come scrivo di ciò che vedo, tocco, sento, annuso, scrivo anche di ciò che ascolto”. Nei ringraziamenti di ogni canzone si menziona un artista e il suo brano, fatto sta che nessuno di questi ne sapeva assolutamente niente. “Certo qui i diritti non c’entrano niente, loro vanno in radio, io scrivo e compongo cose diverse ma non posso evitare la loro presenza e i loro oracoli”. Ci si riferisce alla grande possibilità di ascoltare buona musica ovunque in città, le radio non trasmettono porcate, la gente canta per strada e i bottegai (quelli che resistono all’impero delle multinazionali) hanno buon gusto in fatto musicale e spesso mettono roba interessante e poco conosciuta. In “Embrace me that well” si fa riferimento ad un brano delle Las Robertas, un gruppo di ragazze latine che si sta facendo conoscere nell’abiente dello spiritual rock. “La commessa di questo negozio di vestiti in Lafayette, mi porge un piccolo gioiello giallo, un foglietto a righe strappato dove c’era il nome del gruppo che mandavano e che io stavo canticchiando senza neanche conoscerlo. Sono uscito con le mie nuove scarpe musicali passeggiando per Mott str., con quei suoni così sottili e onirici, in quella piccola città nord europea che è il quartiere di Nolita”.

“Embrace me that well” e le sue epifanie sonore, come altri brani, smorzano la fisicità di “While you where out”. Il pezzo parla di una Midtown che sopravvive spiritualmente solo nei souvenir e in modo più mirabile nelle fotografie di Berenice Abbott. L’artista addita questa decadenza all’assenza di qualcosa o qualcuno che con la sua partenza si è portato via gradualmente gli ori e gli argenti di un’epoca e che ritornando trova tutto molto cambiato; permangono come sposi il grande gigante buono, onnipresente, e l’incoronata con l’anima d’acciaio e il corpo sinuoso di diva immortale, anche loro si guardano un po’ tristi. “Lì non c’è musica tranne quella che canticchio… New York I love you but you’re bringin’ me down…“. Lcd soundsystem. I nuovi abitanti schifano il quartiere come se fosse una vecchia puttana e sono tutti “all’imballaggio carne”. Loro parlano di quanto si  piacciono, e fanno bene, sono belli come l’oro; “Meat packing” dice l’artista. Questi personaggi  riempiono gli occhi, i tuoi, di pagliuzze lucenti e gli abiti di mirra, i loro, e hanno capito che l’elogio è il primo passo verso di te, l’aneddoto divertente il secondo e il terzo, la ritirata, verso posti nascosti come bellissime sporche cantine e pseudo paninari messicani. Di giorno non ci sono più. Ti rimane solo “Apartment Story” dei National, a ripetizione.

Altri pezzi sono veri inni alla vita, “parlano dei luoghi dove mi piace rifugiarmi”. “Williamsburg” così “bassa” e accessibile; ascolti la canzone e lì faresti l’amore per tutto il giorno fino agli ultimi bagliori del sole e poi ti mangi del seitan da un tailandese e sei felice con lei, per sempre, in una sera. Quando sei ancora nel letto senti venire da lontano questa canzone “I want you so bad I can’t breath”. Gli Ok Go devono essere stati almeno una volta a Williamsburg. Alla fine della terra fino a quel momento conosciuta, c’è “Dowtown”. Grandi colonne di pietra si ergono dal mare e più ti avvicini al confine con esso più questa sensazione di pace arriva a coprirti completamente, in quel luogo l’unico rumore è il silenzio mai reale alla fine di una canzone, mentre, girata di schiena, la guardi andare via, sulle note dei Gaslight Anthem. Lei è la ragazza, quello è il luogo, quella è la città dove i giganti ti mangiano e ti nutrono. “E’ il cimitero degli Elefanti, Elephant grave, è dove io andrei a morire e a vivere”.

NYC, “Eaten by Giants”. Dopo di questo non ci sono altre parole, solo musica.

P.S. NYC e “Eaten by Giants” non esistono, la città è.

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